Ragione
Le parole e le cose
ra-gió-ne
Significato Facoltà umana di discernere, stabilire connessioni logiche tra idee e formulare giudizi, che è base della conoscenza
Etimologia dal latino ratio ‘calcolo ragione’, derivato di ratus, participio passato di reri ‘calcolare, ritenere, considerare’.
- «Hai ragione tu.»
Parola pubblicata il 15 Novembre 2022
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Avere l’uso della ragione (facoltà del pensiero), esporre le proprie ragioni (argomentazioni), avere ragione (essere nel giusto), avere ragione dei nemici (imporsi, vincere), chiedere ragione (conto) di qualcosa, non avere ragione (motivo) di essere, in ragione (in proporzione) diretta o inversa, ragione sociale (nome commerciale indicante anche i rapporti tra i soci), e infine i Palazzi della Ragione (tribunali) di città come Padova e Vicenza. È strabiliante la quantità di accezioni di questa parola, e ancor più che derivino tutte dal significato di base del latino ratio, rationis – calcolo, conto – da cui si passa al bilancio, e quindi alla proporzione, al rapporto tra due quantità, e alla regola, al criterio (perciò parliamo di extrema ratio, e in inglese ratio – pronunciato grossomodo réscio – significa appunto ‘rapporto, proporzione’). Ma dove c’è calcolo, ovviamente, c’è interesse, tornaconto, che ognuno – quando cerca di ‘far valere le proprie ragioni’ – rivendica come diritto soggettivo, che volentieri però si afferma come oggettivo, come giustizia.
Anche alla ragione come facoltà del pensiero si arriva tramite il calcolo: calcolare è stimare e discernere, e non a caso raccolta e selezione dei dati sono etimologicamente alla base dell’intelligenza (inter legere: trascegliere, distinguere). In quanto principio, legge razionale della realtà, poi (analogamente al greco logos, di cui era la traduzione), era naturale che la ratio potesse anche rappresentarne la causa, il criterio di spiegazione. Per contro, non sorprende che in quanto raccolta, organizzazione ed esposizione dei dati (ragionamento, appunto), la ragione come facoltà intellettiva non sia stata ritenuta, in ambito filosofico, fonte di conoscenza suprema: la ratio latina corrispondeva alla diànoia greca, ossia al pensiero discorsivo, che procede per sillogismi, mediazioni, ricavando conclusioni da premesse; ma la conoscenza più alta, per Platone e Aristotele, era la nóesis, l’intuizione intellettiva, la quale coglie in modo in-mediato la verità dei principî fondamentali del pensiero e dell’essere.
Per tutta la storia della filosofia, sino al Settecento, la ragione (diànoia, ratio) è stata ritenuta una facoltà inferiore all’intelletto (nous, intellectus), perché a differenza di quest’ultimo è conoscenza procedurale, incapace di attingere intuitivamente l’unità del reale al di là delle differenze e delle opposizioni. Poi arriva Kant e capovolge i termini: mentre l’intelletto (in tedesco Verstand) è necessariamente limitato alla conoscenza dei fenomeni, inquadrati nelle forme spazio-temporali e nelle categorie, la ragione (Vernunft) è la facoltà che tende alla totalità, all’assoluto, alla ricerca di principî incondizionati. Così facendo, però, essa finisce per smarrirsi in idee (ad esempio l’anima, Dio) che non hanno alcun rapporto con l’esperienza sensibile e pertanto sono concetti vuoti, conoscitivamente nulli. Solo in campo morale, per Kant, la ragione opera legittimamente, poiché quello è l’unico incondizionato accessibile agli umani.
Hegel, ritratto da Jakob Schlesinger nel 1831 nell’atto di essere convinto di aver ragione.
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), il più importante degli idealisti tedeschi, accetta questa nozione kantiana ma la porta su un piano radicalmente diverso, sancendo il primato della ragione sotto ogni riguardo e non solo in ambito morale: diversamente dall’intelletto – facoltà eminentemente illuministica – essa coglie l’Assoluto, l’unità tra soggetto e oggetto, finito e infinito. A differenza degli altri romantici, però, Hegel nega che quest’unità debba essere presupposta, data in partenza: lo Spirito (ossia la realtà) non è sostanza immobile bensì dinamismo, movimento dialettico dal respiro triadico. Il primo momento (tesi), tipicamente intellettivo, è quello in cui l’universale si pone come astratto, rigidamente contrapposto al particolare; nel secondo e nel terzo (antitesi e sintesi), le rigide separazioni dell’intelletto vengono superate dalla ragione: l’antitesi è il momento «negativo razionale», in cui la tesi viene negata nella sua astrattezza facendo emergere le contraddizioni, mentre la sintesi è il momento «positivo razionale», perché coglie l’unità degli opposti.
Nella Fenomenologia dello Spirito, Hegel sottolinea come questo processo non sia solo logico ma anche storico: lo Spirito, l’Assoluto, è l’esito di un percorso i cui momenti sono allo stesso tempo tappe della civiltà, in cui la coscienza diventa progressivamente consapevole di sé. Inizialmente essa, in quanto Io empirico e finito, si percepisce come limitata e transeunte, non riuscendo a superare l’opposizione tra soggetto e oggetto. Diventa ragione solo quando capisce di «essere ogni realtà», ossia coglie l’identità di pensiero ed essere; ma ogni tappa di questo processo, ogni determinazione particolare era indispensabile, perché lo Spirito è risultato, esito concreto ottenuto attraversando le contraddizioni del reale e risolvendole in una superiore unità.
Ma cos’è infine questo Spirito, che per Hegel comprende anche la ragione ma ai nostri occhi di persone del terzo millennio appare esoterico ed astratto? È l’aspetto intersoggettivo, la realizzazione collettiva e concreta della ragione in quanto patrimonio ideale e culturale di una comunità, è «Io che è Noi, Noi che è Io». Si può anche rigettare in blocco la filosofia hegeliana, ma – per dirla con Giovanni Reale – «non capirebbe neppure una parola di ciò che dice Hegel chi non tenesse continuamente presente questa dimensione intersoggettiva, sociale, dello Spirito».