Rima

rì-ma

Significato Identità di suono fra due parole dalla vocale tonica in poi, verso, componimento poetico; come altro lemma, fessura anatomica

Etimologia nel primo caso, attraverso l’antico francese rime, dal latino rhythmus, prestito dal greco rhythmós — forse affine a rhêin ‘scorrere’. Nel secondo caso, voce dotta recuperata dal latino rima ‘fessura, crepa’.

La rima è una condizione semplice: l’identità di suono nel finale di due parole — in particolare, dalla vocale su cui cade l’accento tonico in poi (stambécco-rilécco, risàcca-bislàcca, sì-quì). Magari non è una definizione che ogni persona abbia pronta in mente, ma la viviamo intuitivamente: il modo in cui suona la rima è un ritmo davvero fondamentale, nella nostra cultura, su cui s’impernia tradizionalmente tanta parte della poesia e della canzone. Non c’è persona che non senta come mèmore non fa rima con cuore, il quale invece rima con amore, ma non con fèmore, che invece col mèmore di prima, rima.

In effetti lo stesso termine ‘rima’, prestito dal francese rime, nasce dal termine latino rhythmus, con una chiara ascendenza greca, ed è quindi cugino etimologico del ritmo. Rhythmus è un termine che in epoca tarda ha guadagnato terreno sul metrum, attestandosi sempre più in una dimensione poetica; la metrica classica era ordinata sulla quantità delle vocali, sulla durata delle sillabe, mentre una poesia nuova e barbarica (che avrebbe prevalso ed è la nostra), si fondava sul numero di sillabe, sui loro accenti. Il nostro concetto di rima testimonia questo passaggio: è un elemento della musicalità poetica che rompe con l’eredità classica, ma è tanto centrale che passa a indicare la poesia stessa: commentare le rime di un poeta non significa concentrarsi solo sui finali omofonici dei suoi versi, ma su versi, componimenti, opere intere.

I tipi di rime sono una valanga, e si distinguono per il modo che hanno di avvicendarsi di verso in verso. Toccandone alcune, sono baciate se si susseguono, alternate se appaiono a turno; di solito chiudono il verso ma possono essere interne e al mezzo; a seconda delle parole che rimano possono essere sdrucciole piane e tronche — e sono famose quelle incatenate di Dante, in cui ogni nuova rima introdotta s’inanella nell’alternanza della precedente. Mentre indicano strofe di un determinato numero di versi quando si parla ad esempio di ottava, nona, decima rima.

C’è però un’altra questione che coinvolge la rima: a portare questo nome c’è un altro concetto. Tanta gente (noi compresi) l’hanno scoperto solo durante un particolare dimenticabile frangente della pandemia, in cui si ragionava di come la distanza da mantenere fra le persone sedute fosse da misurare fra le rime buccali. Espressione di cui s’indovinava il significato, ma quantomai distante da un uso corrente: questa rima non è cugina del ritmo, bensì è un latinismo più crudo. Rima, in latino, era la fessura, la fenditura, la crepa (l’etimologia ulteriore è incerta); ha avuto questi significati in un italiano d’altri tempi, e oggi è rimasto come termine medico per indicare l’apertura di una struttura anatomica, specie compresa fra due strutture simmetriche, che dà su una cavità — e così si parla di rime palpebrali e di rime buccali, senza che c’entri il rispondere per le rime. Polirematica che, per inciso conclusivo, si riferisce alle tenzoni poetiche medievali, in cui alla proposta poetica si rispondeva spesso con le stesse rime — una ‘risposta per le rime’, e perciò pronta, decisa e gagliarda.

Parola pubblicata il 30 Ottobre 2021