Versipelle

ver-si-pèl-le

Significato Che cambia pelle, che muta e finge con abilità, opportunista, ingannevole

Etimologia voce dotta, dal latino versipellis, composto di versus, participio passato di vèrtere ‘voltare’ e pellis ‘pelle’.

Una notte Nicerote si stava dirigendo fuori città (per la verità verso la casa di campagna di una donna ammogliata con cui se la intendeva, Melissa), e s’era fatto accompagnare da un ospite del suo patrono, un omaccione grande e grosso.

Capitò che passassero per un cimitero, e lì l’omaccione si soffermò a orinare su una lapide, bontà sua. Quando Nicerote lo riguardò, quello si stava spogliando nudo, continuando a urinare in cerchio intorno ai propri abiti: si trasformò in un lupo e fuggì via. Gli abiti a terra si erano fatti di pietra. Terrorizzato e trasognato, spada in pugno, mulinandola contro ogni ombra, Nicerote raggiunse la casa di Melissa.

Così inizia la favola horror di Nicerote alla cena di Trimalcione, celebre episodio del Satyricon di Petronio, autore latino del I secolo d.C. Una favola ricca di simbolismi raffinati, di sottili rituali — e che finiremo di raccontare in coda — che però balza all’occhio per un dato sorprendente: già ai tempi si raccontavano storie dell’orrore sui licantropi.

Il licantropo di Petronio è chiamato col sostantivo versipellis e l’immagine è quella di una metamorfosi compiuta con un rivoltamento di pelle — come se quella di lupo fosse il rovescio di quella umana. C’è anche l’aggettivo versipellis, che è il mutevole, ma anche lo scaltro, il dissimulatore (pensiamolo come un cambiapelle), più vicino al nostro ‘versipelle’ — ma curiosamente è il terribile versipelle della favola di Petronio che hanno in mente i primi umanisti che lo avvicinano e portano nell’italiano. Un esempio?

Giovanni Francesco II Pico della Mirandola (nipote del più celebre fra i Pico signori di Mirandola, Giovanni), nel 1523 scrive in latino un trattato di demonologia che Leandro Alberti tradurrà l’anno dopo come La strega, ovvero degli inganni de’ demoni: Alberti, teneramente e con lungimiranza, sceglie di non tradurre il versipellis con cui Pico aggettiva il demonio, e lo scrive “versipelle”, fra virgolette. Ma Pico spiega l’uso di questo aggettivo, che evidentemente ritiene importante, dicendo che è tratto dalle favole in cui si dice che gli uomini si trasformano in lupi.

In breve, noi prendiamo dal latino il versipelle come aggettivo, che per noi significa ‘che cambia pelle, che muta e finge con abilità, opportunista, ingannevole’… ma l’omologo latino aveva smalto e fama perché era anche il nome gagliardo del lupo mannaro.

Le qualità del versipelle (e in generale l’immagine del cambio di pelle) nel nostro immaginario attuale si ricollegano più al serpente che al lupo mannaro, ma ci sono comunque ben noti i loro usi: si può parlare del politico versipelle che dopo l’elezione è transitato attraverso tutti i gruppi dell’emiciclo, il giornalista versipelle dà la versione faziosa che in quel frangente gli fa più comodo, e si semina zizzania con un intervento versipelle.

Una parola ricercata, elegante, che in un discorso si fa notare; e anche se è poco conosciuta, è molto evocativa, e indovinarne il significato non è difficile.

Nicerote arrivò alla casa di Melissa, stravolto. E lei lo accolse dicendogli che ah, se fosse arrivato un po’ prima avrebbe potuto dare una mano contro il lupo, ha fatto fuori tutte le pecore. Per fortuna, però, un servo era riuscito a colpirlo al collo con una lancia.

All’alba Nicerote tornò verso casa: al cimitero i vestiti di pietra non c’erano più, al loro posto una pozza di sangue. Giunto a casa, trovò il medico che stava curando l’omaccione, con una seria ferita al collo. Capì che era un versipelle, un lupo mannaro, e non ci spartì più nemmeno un tozzo di pane — e lo colpisca l’ira dei nostri numi tutelari se ci ha mentito.

Parola pubblicata il 29 Aprile 2020