Colposo

col-pó-so

Significato Commesso senza volontà di nuocere, per negligenza, imprudenza, imperizia

Etimologia da colpa, che è dal latino culpa.

Il lessico del diritto ci abitua a parole che, nel gergo, hanno significati differenti rispetto a quelli che hanno nella lingua comune, o che sono più correnti. ‘Ripetizione’ (un chiedere indietro), ‘prescrizione’ (l’estinzione di un diritto), perfino ‘ovvero’ (un ‘oppure’): ce ne sono a bizzeffe, quindi ci aspettiamo l’accezione inattesa, insomma. Eppure, nella parola tecnica possiamo scoprire alcuni nervi della parola comune, che da sé non ci aveva dato molto da riflettere.

Non direi «È colpa tua» davanti a una tua azione dannosa compiuta volontariamente e coscientemente. La colpa esiste sempre rispetto a un risultato non voluto, l’atto compiuto con colpa non è sostenuto dalla volontà dell’esito dannoso. Compiuta per mia mano l’estrema vendetta con somma soddisfazione, così come non direi che il risultato è colposo, non direi nemmeno che il risultato è colpa mia. (Semmai merito.)

La culpa latina è innanzitutto uno ‘stato di errore’ — la radice protoindoeuropea ricostruibile come kuolp- parla di una piega, di un giro, di una svolta. Così, anche qui, arriviamo a distinguere assenza o presenza di dirittura morale, di rettitudine, con la solita alternanza di dritto e di torto. L’errore, riconosciuto come tale, è per definizione un risultato non voluto. Ma addentriamoci ancora un po’ nella foresta del sottile, pronti a prenderci un ramo in faccia.

Resta un cortocircuito, si direbbe: il colposo (pieno di colpa) non era voluto, ma la persona riconosciuta responsabile per un delitto volontarissimo (proprio desiderato ardentemente) la diciamo comunque colpevole. Che storia è questa?
Forse il paradosso è ridotto dal suffisso -evole. L’-evole ci qualifica un’attitudine, una possibilità, in certi casi un dovere: il colpevole è, per così dire, adatto alla colpa, così come l’ammirevole e gradevole s’inclinano all’ammirazione e al gradimento. Ma ecco, la prospettiva resta più quella di una valutazione esterna: il colpevole può non conoscere senso di colpa, mentre il colposo è più aderente al paradigma della colpa: senz’altro non voleva quel male, ma gli si può attribuire.

Capiamo che è una questione sottile, quella della responsabilità colposa: in quali casi posso essere ritenuto colpevole di un reato che non avevo l’intenzione di compiere? (Di seguito farò una scivolata nel fango sullo stinco di decenni anzi secoli di giurisprudenza sofisticatissima.)
La responsabilità penale è tipicamente dolosa (il dolo, volontà e rappresentazione del fatto illecito, pare sia peraltro etimologicamente parente del dolore); può esistere una responsabilità colposa, piena di colpa, in casi tassativi, «quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline», a mente dell’art. 43 del codice penale — quindi non fai qualcosa che avresti dovuto fare e nella maniera in cui avresti dovuto farla, fai qualcosa in maniera avventata e temeraria, fai qualcosa che non hai l’esperienza e la qualifica per fare, fai qualcosa glissando su norme specifiche. Ci sono casi peculiari di una certa sottigliezza, come la colpa cosciente, in cui l’agente si rappresenta il danno o il pericolo ma confida che non si verificherà, o la colpa impropria, in cui l’agente vuole l’evento (è il caso ad esempio dell’eccesso colposo di legittima difesa), ma è meglio se chiedete al vostro avvocato.

Quello che alla fine, linguisticamente, ci ha interessato, è che la colpevolezza di chi vuole e compie un male è un genere di sfocatura, e che nel colposo troviamo la trama autentica della colpa, tralignamento rispetto a una norma (terrestre o celeste) di buon comportamento, compiuto senza volere il male.

Parola pubblicata il 21 Agosto 2025