Responsabilità
re-spon-sa-bi-li-tà
Significato Condizione di chi deve rendere conto di azioni proprie o altrui; consapevolezza delle proprie azioni e delle conseguenze derivate, assennatezza; colpevolezza
Etimologia su modello del francese responsabilité, che a sua volta è modellato dall’inglese responsibility, ma deriva da responsable dal latino responsus, participio passato di respondère, formato da re- e spondère ‘promettere, impegnarsi solennemente’.
- «È una scelta di grande responsabilità.»
Parola pubblicata il 05 Dicembre 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
La responsabilità consiste nell’essere responsabile. Chiaro, no? Certo, ma cosa significhi essere responsabile, invece, lo è un po’ meno. In un ufficio chiedo di «parlare con il responsabile»; un genitore dice al figlio: «dovresti essere più responsabile»; la preside dichiara con aria arcigna che «i responsabili saranno puniti»; una costituzione recita che «il Governo è responsabile davanti al Parlamento». Ognuno di questi casi allude a un tipo differente di responsabilità: in un’organizzazione, il responsabile è chi è incaricato di una certa funzione o settore; per il figlio, essere responsabile vuol dire essere assennato; i responsabili che la preside vuole punire sono i colpevoli; e chi è responsabile davanti a qualcuno è tenuto a rendere conto a quest’ultimo delle proprie azioni. Quale forza centripeta, aggregante, tiene insieme un tale galassia di significati? Quella dell’etimologia, naturalmente.
È facile intuire che la responsabilità è imparentata col rispondere, ma la radice etimologica ci porta più a fondo: ‘responsabile’ viene, attraverso il francese responsable, dal latino responsus, participio passato di respondère, formato da re- e spondère ‘promettere, impegnarsi solennemente’. Prima di diluirsi in un generico ‘rispondere’, quindi, in origine respondère era ‘promettere, garantire a propria volta’. Ecco perché questa risposta, che è impegno e garanzia reciproca, nella responsabilità si declina così variamente, ed ecco perché la responsabilità è un termine chiave della filosofia morale e politica. Fino a che punto gli umani sono responsabili – ergo imputabili – delle loro azioni? I deterministi ritengono con Nietzsche che «tutto è necessità», sostenendo la «totale irresponsabilità dell’uomo rispetto alle sue azioni»; altri pensatori giudicano tale prospettiva intollerabile, ingiusta e avvilente. All’inizio del secolo scorso, Max Weber distinse tra etica dei principî (o delle intenzioni, delle convinzioni) e etica della responsabilità. La prima, tipica di religiosi e rivoluzionari, è imperniata sull’assolutezza di determinati valori, ritenuti meritevoli a prescindere dalle conseguenze pratiche; la seconda, tipica dello statista, è invece incentrata proprio sulle conseguenze concrete dell’azione.
Curiosamente, però, il filosofo che più ha legato il suo nome al concetto di responsabilità, Hans Jonas (1903-1993), non era affatto interessato a queste sottigliezze morali. O meglio, nel suo libro più noto, Il principio responsabilità (1979), Jonas propugna una sorta di etica della responsabilità radicale, che ci chiama ad essere tutti statisti. Il sottotitolo del libro è già un programma: Un’etica per la civiltà tecnologica. L’idea di responsabilità, cioè, è l’architrave di una nuova morale adatta ad un’era in cui la tecnologia – pensiamo alla manipolazione genetica, al rischio di catastrofe ecologica e apocalisse nucleare – minaccia la sopravvivenza stessa del pianeta e dell’umanità. Di fronte al rischio concretissimo di autodistruzione della specie umana, la morale non può più limitarsi al qui e ora degli individui e delle società presenti: serve un’etica nuova, che non rifletta su «che cosa debba essere l’uomo», sulla sua perfezione e felicità, bensì sull’«imperativo originario, preliminare, (…) che egli debba essere». Il nuovo imperativo categorico, quindi, sarà «Agisci in modo che le conseguenze della tua azione siano compatibili con la permanenza di un’autentica vita umana sulla terra».
Hans Jonas, in una foto dell’archivio dell’università di Sankt Gallen del 1983, parte con aspettative basse.
Ma perché è così importante assicurare la sopravvivenza della specie? Perché dovremmo preoccuparci di esseri che non esistono ancora? Qui Jonas non si perita di assumere una posizione apertamente metafisica: poiché nella natura vi sono scopi e quindi valori, l’essere è intrinsecamente migliore del non essere. È una postura palesemente antimoderna, giacché da tempo la filosofia vede l’essere perlopiù come qualcosa di puramente fattuale, che semplicemente esiste, senza scopi e valori intrinseci, senza che da esso si possa dedurre alcun dover essere. Questa visione, però, non solo rende impossibile una morale fondata e conduce al nichilismo, ma soprattutto è contraddetta, secondo Jonas, dall’esistenza di uno specifico essere: il neonato, «il cui solo respiro rivolge inconfutabilmente un ‘devi’ all’ambiente circostante affinché si prenda cura di lui». La responsabilità del genitore è l’«archetipo atemporale di ogni responsabilità» umana.
Il titolo del libro di Jonas si contrappone volutamente a quello di Ernst Bloch, Il principio speranza (1954-1959), in cui la speranza e l’utopia erano delineate come anelito alla piena realizzazione delle potenzialità umane, dell’«uomo autentico». Ma anzitutto, obietta Jonas, l’uomo autentico esiste già ed è sempre esistito, e non è quello ideale e perfetto dei sogni degli utopisti – che quando si realizzano, peraltro, producono solo danni; inoltre, l’utopia presuppone un atteggiamento «immodesto», fondato su un’idea di benessere e abbondanza come derivati dal progresso tecnologico, per cui sapere è potere: presuppone cioè un «Prometeo definitivamente scatenato», ossia proprio ciò che ci sta portando alla catastrofe e all’estinzione. Non la speranza deve guidare le nostre scelte, quindi, ma piuttosto la paura, la consapevolezza della necessità di porci un limite per evitare l’apocalisse.
Un’etica a dir poco austera: la speranza era un principio chiaramente moderno, ottimistico, progressivo; il principio responsabilità jonasiano è mestamente postmoderno – un’etica per tempi di vacche magrissime.