Critica

crì-ti-ca

Significato Facoltà razionale che consiste nel porre sotto esame rigoroso fatti e questioni, e di formularvi sopra un giudizio obiettivo; tale giudizio stesso, e in particolare l’esame di opere artistiche per una valutazione estetica; giudizio negativo

Etimologia voce dotta recuperata dal greco kritikḗ (tékhne) ‘(arte) del giudicare’, femminile di kritikós, da kríno ‘io giudico, distinguo’.

Ecco un’altra parola che mal tollera la neutralità della vox media. Di per sé, critica non è connotato in senso positivo o negativo: il latino criticus ricalcava il greco kritikós, derivato da krínein ‘giudicare, discernere’; e questo fa il critico di mestiere, la cui critica d’arte, cinematografica o letteraria è benevola o malevola secondo i casi. Nella vita quotidiana però non c’è dubbio: le critiche a qualcuno o qualcosa sono sempre biasimo, riprovazione. Anche la crisi, peraltro – altro membro della famiglia krínein –, ha avuto un’evoluzione simile: in medicina è il momento decisivo di una malattia, che prelude a un esito fausto o infausto, ma ormai da tempo, in ogni contesto – dalla crisi coniugale o economica, sino a quella di un impero – indica semplicemente un momento di profonda difficoltà e turbamento.

In filosofia, il termine è legato indissolubilmente al pensiero di Immanuel Kant (1724-1804), che vi ha intitolato le sue tre opere principali (Critica della ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del giudizio). Secondo Kant, vissuto in piena temperie illuminista, la critica era il carattere precipuo del suo tempo: «La nostra epoca è la vera e propria epoca della critica, cui tutto deve sottomettersi. La religione mediante la sua santità, e la legislazione mediante la sua maestà vogliono di solito sottrarsi alla critica. Ma in tal caso esse suscitano contro di sé un giusto sospetto». Dichiarazione piuttosto battagliera, per un suddito obbediente del re di Prussia che aveva ricevuto una rigida educazione religiosa, non volle mai allontanarsi dai dintorni della natia Königsberg e conduceva una vita così grigia e rigidamente regolata da divenire leggendaria.

Un ritratto di Immanuel Kant dipinto da Johann Gottlieb Becker nel 1768. Un buon ritratto — ma di sicuro non si salva dalle critiche.

Ma quella kantiana era una critica molto particolare. La critica della ragion pura, scrive Kant, è un tribunale in cui la ragione si autoprocessa, «che la garantisca nelle sue pretese legittime, ma condanni quelle che non hanno fondamento». Il punto di partenza obbligato è la domanda che apre il Saggio sull’intelletto umano di Locke: «Che cosa posso sapere?». Ma l’empirismo era pervenuto con Hume ad esiti scettici, negando qualunque possibilità di una conoscenza certa. D’altro canto, l’approccio razionalistico di Cartesio e Leibniz, coi quali Kant condivideva l’esigenza di una conoscenza scientifica universale e necessaria, si era tramutato in dogmatismo astratto, pretendendo di dedurre l’esistenza dalla logica, l’essere dal pensiero, a scapito dell’esperienza sensibile. Per Kant, invece, i sensi e l’intelletto sono due componenti distinte ma inscindibili della conoscenza umana. Bisogna uscire dal dilemma tra razionalismo ed empirismo, dogmatismo e scetticismo.

Per farlo, si deve anzitutto smettere di concepire l’oggetto come qualcosa che, semplicemente, si dà all’intelletto, il quale lo accoglie passivamente. È questa la famosa rivoluzione copernicana di Kant: come per Copernico era la Terra a ruotare intorno al sole e non viceversa, così per Kant non è la nostra mente a modellarsi sugli oggetti ma questi ultimi a regolarsi su di lei. La realtà, cioè, è ‘filtrata’ dalle nostre strutture conoscitive – da forme, funzioni intellettuali che sono condizioni di possibilità del conoscere (Kant le definisce a priori o trascendentali, cioè non solo indipendenti dall’esperienza ma costitutive di essa). Nella conoscenza sensibile, queste forme a priori sono lo spazio e il tempo, realtà non oggettive ma soggettive: sono il nostro modo di cogliere le cose, l’organizzazione delle nostre strutture percettive; ma intelligenze extraterrestri potrebbero benissimo percepire la realtà in modo non spazio-temporale.

Noi, dunque, conosciamo solo i fenomeni, ossia le cose come appaiono, come possono apparirci in base alle nostre apparecchiature conoscitive; di come siano le cose in sé (i noumeni), non sappiamo assolutamente nulla. E non va meglio se passiamo dalla conoscenza sensibile a quella intellettiva: quest’ultima non fa che unificare il molteplice sensibile – e dargli senso – attraverso i concetti, o categorie. Quindi, anche la conoscenza intellettuale non mi fa conoscere le cose in sé. Ma allora, se degli oggetti conosco solo ciò che vi ho messo io stesso, che cosa garantisce l’accordo tra il mio intelletto e le cose? Nient’altro che la funzione unificatrice dell’intelletto medesimo, che Kant chiama Io penso. Ecco quindi l’esito della filosofia critica: il soggetto è legislatore della conoscenza, ma di una conoscenza assai limitata, rigidamente circoscritta. Niente voli temerari: l’intuizione intellettuale, la visione diretta del noumeno, è riservata a Dio.

Come si vede, il criticismo cammina sul filo del rasoio: da una parte, è il pensiero stesso che crea – in modo trascendentale, determinando cosa è possibile conoscere – il suo oggetto; dall’altro, la cosa in sé resta lì, inattingibile. Pochi si sorpresero (men che meno lo stesso Kant) quando qualcuno decise di passare dal trascendentale al reale: bastava disfarsi del noumeno, fastidioso convitato di pietra, limite mortificante alla libertà del soggetto, e restava il pensiero come unica e sovrana realtà. Finiva l’età della critica, iniziava quella dell’Io.

Parola pubblicata il 20 Settembre 2022

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.