Etimologia propriamente participio passato di degenerare, voce dotta recuperata dal latino degeneràre, composto parasintetico di gènus ‘stirpe, generazione’, con il prefisso de- che indica allontanamento.
Le fortune delle parole cambiano, anche in base alla loro attitudine a rappresentare le idee correnti. Infatti certi modi di cogliere una qualità possono avere tratti critici figli di concezioni andate, e una severità che pare vieta: questo, nel degenerato, si coglie con evidenza speciale.
L’idea di base è fulminante: c’è un genere (genus), diciamo pure una stirpe, che in quanto tale ha (o si crede che abbia) delle virtù tipiche. Un’idea dalla grande potenza narrativa, peraltro. Be’, il degenerare è il perdere tali virtù, su una via di difformità e corruzione (tramite il solito de- che indica un allontanamento).
Non il paradigma più progressista, si direbbe.
Potremmo continuare a parlare del rampollo degenerato dell’antica casata, ma capiamo che è un pensiero diroccato su cui cresce l’edera; invece la prospettiva conserva più smalto e si fa più interessante se ragioniamo di come siamo animali degenerati, che perdono il contatto con le sensazioni e la mobilità del proprio corpo, se parliamo di un’arte degenerata che si fa cervellotica e incapace di comunicare, se consideriamo una cucina degenerata che prescinde dalle stagioni. In altri termini, regge con dura sobrietà un degenerato che è scaduto, deteriorato. Che ha anche dei risvolti d’uso nel gergo scientifico.
In effetti il giudizio del degenerato è molto pesante, come si sente. Non ha il profilo criminale del corrotto, non s’impunta sul lignaggio come il decaduto, non si fonda sull’immoralità come il depravato — compie un’operazione sintetica che adombra queste possibilità tutte insieme.
Forse è proprio il versante che investe la condotta morale che fa smottare di più il degenerato — un tempo, nell’Ottocento, quando ha avuto più successo, le maglie del pervertito erano molto più strette, e il ‘degenerato’ s’intonava meravigliosamente alla lue calamitosa dell’anormalità psichica e morale. Chissà che combina, di notte, la gente degenerata...
D’altro canto proprio questa severità d’altri paradigmi offre il degenerato all’ironia: posso parlare di quel degenerato del nipote, che pretende di fare altro, nella vita, oltre a lavorare; di quella gente degenerata che fa il pesto non al mortaio, ma col frullatore; mentre io sono un degenerato che non stira più, e va nel mondo con le camicie spiegazzate.
Da notare qui la sottile differenza col quasi gemello ‘degenere’ — che forse risulta un po’ più leggero. La classica madre, il classico padre, o figlio o figlia degenere sono cattivi genitori e cattiva prole, priva delle qualità che idealmente dovrebbero avere, ma se fossero una madre o una figlia degenerata e un padre o un figlio degenerato è probabile che sarebbero peggio.
Il tradimento della conformità, conformità nientemeno che a una certa natura, è duramente censurato, nel degenerato. Un tralignare intimo e oltraggioso.
Forse non è mai stata una parola, un concetto d’avanguardia — già Dante nel Convivio bubava che «la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe». Ma è forte e immediata, e di tempo in tempo si può leggere come conviene meglio.
Le fortune delle parole cambiano, anche in base alla loro attitudine a rappresentare le idee correnti. Infatti certi modi di cogliere una qualità possono avere tratti critici figli di concezioni andate, e una severità che pare vieta: questo, nel degenerato, si coglie con evidenza speciale.
L’idea di base è fulminante: c’è un genere (genus), diciamo pure una stirpe, che in quanto tale ha (o si crede che abbia) delle virtù tipiche. Un’idea dalla grande potenza narrativa, peraltro. Be’, il degenerare è il perdere tali virtù, su una via di difformità e corruzione (tramite il solito de- che indica un allontanamento).
Non il paradigma più progressista, si direbbe.
Potremmo continuare a parlare del rampollo degenerato dell’antica casata, ma capiamo che è un pensiero diroccato su cui cresce l’edera; invece la prospettiva conserva più smalto e si fa più interessante se ragioniamo di come siamo animali degenerati, che perdono il contatto con le sensazioni e la mobilità del proprio corpo, se parliamo di un’arte degenerata che si fa cervellotica e incapace di comunicare, se consideriamo una cucina degenerata che prescinde dalle stagioni. In altri termini, regge con dura sobrietà un degenerato che è scaduto, deteriorato. Che ha anche dei risvolti d’uso nel gergo scientifico.
In effetti il giudizio del degenerato è molto pesante, come si sente. Non ha il profilo criminale del corrotto, non s’impunta sul lignaggio come il decaduto, non si fonda sull’immoralità come il depravato — compie un’operazione sintetica che adombra queste possibilità tutte insieme.
Forse è proprio il versante che investe la condotta morale che fa smottare di più il degenerato — un tempo, nell’Ottocento, quando ha avuto più successo, le maglie del pervertito erano molto più strette, e il ‘degenerato’ s’intonava meravigliosamente alla lue calamitosa dell’anormalità psichica e morale. Chissà che combina, di notte, la gente degenerata...
D’altro canto proprio questa severità d’altri paradigmi offre il degenerato all’ironia: posso parlare di quel degenerato del nipote, che pretende di fare altro, nella vita, oltre a lavorare; di quella gente degenerata che fa il pesto non al mortaio, ma col frullatore; mentre io sono un degenerato che non stira più, e va nel mondo con le camicie spiegazzate.
Da notare qui la sottile differenza col quasi gemello ‘degenere’ — che forse risulta un po’ più leggero. La classica madre, il classico padre, o figlio o figlia degenere sono cattivi genitori e cattiva prole, priva delle qualità che idealmente dovrebbero avere, ma se fossero una madre o una figlia degenerata e un padre o un figlio degenerato è probabile che sarebbero peggio.
Il tradimento della conformità, conformità nientemeno che a una certa natura, è duramente censurato, nel degenerato. Un tralignare intimo e oltraggioso.
Forse non è mai stata una parola, un concetto d’avanguardia — già Dante nel Convivio bubava che «la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe». Ma è forte e immediata, e di tempo in tempo si può leggere come conviene meglio.