Accampare
ac-cam-pà-re (io ac-càm-po)
Significato Alloggiare truppe in un accampamento; avanzare, addurre, specie in maniera pretestuosa; come riflessivo, sistemarsi in un ricovero provvisorio
Etimologia composto parasintetico di campo, con prefisso a- che indica avvicinamento.
- «Non accampare scuse, concludi il lavoro oggi.»
Parola pubblicata il 18 Agosto 2025
La questione problematica è immediatamente chiara: ci accampiamo per la notte e accampiamo scuse. È sempre la solita azione?
Il verbo è semplice, ma cela un punto opaco. Uno slittamento di concezione nel suo centro. Infatti, anche se continua a sembrarci qualcosa di comune, la nostra idea di ‘campo’ è cambiata rispetto a ciò che il campo è stato negli ultimi millenni.
Ha preso ampie pieghe nel campo della metafora, ed è rimasto come spazio coltivato; diciamo che si è asciugato su un definito spazio di lavoro per agricoltura, per sport, per dottrine specialistiche, per forze fisiche. Ma ha una profonda ambivalenza nascosta.
Il campo è sia lo spazio circoscritto, sia la distesa vasta — all’origine del campus latino pare ci sia una figura di terra pianeggiante — ed è un’ambivalenza che possiamo ancora apprezzare nei campi quali piazze cittadine (prendiamo Venezia o Siena). Ma anche se usiamo ancora locuzioni come ‘avere campo libero’, che evocano il campo quale spazio sgombro per ogni manovra, e anche se usiamo tante altre espressioni di matrice militare che lo intendono così, oggi chiamiamo ‘campi’ i campi, più che gli spazi aperti in genere. L’accampare si accampa proprio qui.
Il campo è anche luogo di guerra — di battaglia o di alloggiamenti. E l’accampare è proprio un alloggiare truppe, sistemarle in un accampamento, che è un campo sul campo, luogo delimitato (come i campi da calcio e i campi di prigionia), posto là dove la strategia dispone. A questo punto non ci stupisce che l’accampare fosse anche lo schierare truppe davanti al nemico — questo prefisso a- è una pennellata d’ideogramma che pone o avvicina il campo.
Naturalmente gli accampamenti sono provvisori; e quando non sono organizzati in campagne militari (sempre per campi anche le campagne) restano ricoveri temporanei, specie posti durante un viaggio. Tutto questo gran viaggiare con tende e salmerie ci fa arrivare, finalmente, all’accampare scuse, diritti, ragioni e via dicendo.
È un avanzare, un addurre che prende campo. Non è che venga fatto con gran giustificazione, con grande solidità, con gran fondamento. È un argomento di tende piantate coi picchetti e di gente a bivacco, non di architetture di pietra e abitanti. Ciò che accampiamo è spinto avanti, in una figurata terra di conflitto.
Quando accampo scuse per il ritardo, ne sistemo e schiero al fine improbabile di scagionarmi; quando accampo diritti su un oggetto, vengo sotto in maniera un po’ sorprendente e pretestuosa; quando accampo pretese, le muovo con una certa tattica, anche se magari sono campate in aria.
Così un’azione come l’accampare, che concretamente è rimasta per pochi — per chi trova spazio per vivere, a quando a quando, ospite della natura — con la sottigliezza dei suoi significati ci racconta di quando era una necessità di massa confrontarsi con lo spazio sterminato fuori, in guerra come in pace, un po’ incerta, un po’ audace.