Claudicare

clau-di-cà-re

Significato Zoppicare; titubare, mancare di qualcosa

Etimologia voce dotta recuperata dal latino claudicare, da claudus ‘zoppo’.

  • «È entrato claudicando, che gli è successo?»

Un’altra parola su cui erano state piantate croci tombali, per secoli usata a stento, e che però si trova ancora nei titoli dei giornali e nei discorsi correnti. E il caso è particolarmente curioso, perché è un latinismo forte, oscuro, e raccolto dalla lingua in modi insoliti.

In latino claudicare significa ‘zoppicare’. Claudus, zoppo. E naturalmente ‘instabile’, ‘precario’, ‘carente’ e avanti coi significati figurati che ancora vi ricolleghiamo. Il fatto è che claudus non si sa da dove salti fuori — ci sono stati dei tentativi di collegarlo a clavis nel senso di ‘sbarra’ e a clava (l’associazione zoppo-bastone pare venga da sé), ma non hanno convinto.
Ad ogni modo non solo il claudicare è stato recuperato nel Quattrocento, ma il riferimento (più nascostamente) si è conservato in Claudio, Claudia e nomi affini di persona: dopotutto la gens Claudia era una delle leggendarie cento famiglie patrizie che fondarono Roma, e comunque i riferimenti a caratteri fisici (spesso difetti) sono fra i preferiti dell’onomastica.

‘Claudicare’ è un termine di derivazione dotta e di registro elevato. ‘Zoppicare’ è sempre stato più corrente — e questo minuscolo inquadramento ci dà subito un’idea precisa di come si usi ‘claudicare’.
Lo zoppicare è sgraziato: evocarlo in maniera troppo chiara e piana può risultare ruvido, per la delicatezza di certi discorsi. Lo zoppo poi si associa a una galassia fisiognomica abbastanza bassa — zoppi e zoppe sono persone ordinarie. La persona che claudica invece è subito paludata da una paradossale grazia; il difetto è minimizzato, reso con garbo, con premura.

Se diciamo che la persona si allontana dal luogo dell’incidente zoppicando, la figura è resa in maniera lineare, senza fronzoli; se invece diciamo che si allontana claudicando, ecco un’aura di dignità. La nonna che zoppica al mercato di banco in banco è aperta, alla mano, o magari in difficoltà; la nonna che claudica al mercato è subito distinta. Quando in casa, dopo l’infortunio, zoppico fra le stanze, paio senza requie, impedito; se invece claudico fra le stanze, ecco che il mio profilo si fa più distaccato e pacifico.

Bene, bello, ma non è tutto.
Il claudicare, così come lo zoppicare, si presta a usi figurati da soppesare. Titubare, essere incerto, mancare di qualcosa: può essere claudicante una soluzione indecisa, possono essere claudicanti le frasi della tesi prima della revisione, può essere claudicante il mio tedesco, il mio latino.

Sono usi semplici, ma non da dare per scontati: spesso, con spontaneità, usiamo condizioni fisiche di difetto come termini di paragone, come metafore — sei cieco davanti a questa situazione, sordo alle mie richieste, le tue scelte sono miopi, la tua argomentazione è zoppa. Sono usi comuni, ma non sono usi neutri: scelgono di valorizzare un significato materiale in un senso psicologico, preciso e grossolano. Si può anche scegliere di far comportare la propria lingua altrimenti — anche perché, se usciamo da un paradigma per cui il difetto fisico è condizione aliena, ci accorgiamo facilmente che quella mancanza totalizzante, a cui diamo significati metaforici così ampi, è invece circoscritta. Insomma, l’argomentazione che liquidiamo come claudicante potrebbe mordere forte.

Parola pubblicata il 14 Giugno 2025