Minchia
Dialetti e lingue d'Italia
mìn-chia
Significato Varietà linguistica: SICILIANO — termine volgare per ‘pene’, o per esprimere stupore e ammirazione, o con valore rafforzativo
Etimologia dal latino méntula, nome volgare dell’organo sessuale maschile.
- «Ma che minchia stai dicendo?»
Parola pubblicata il 28 Luglio 2025
Dialetti e lingue d'Italia - con Carlo Zoli
L'italiano è solo una delle lingue d'Italia. Con Carlo Zoli, ingegnere informatico che ha dedicato la vita alla documentazione e alla salvaguardia di dialetti e lingue minoritarie, a settimane alterne esploriamo una parola di questo patrimonio fantasmagorico e vasto.
Parola che percepiamo come originariamente siciliana, ma in realtà presente anche in altre varietà, tra cui in sardo con la forma mincra, è passata ormai all’italiano parlato, e la sua diffusione è in continuo aumento.
Anche dove 30 anni fa era percepita come esclusivamente meridionale, oggi è diffusa come parola normale, di registro volgare, specie tra i giovani: studi autorevoli ci dicono che quando una ‘parolaccia’ arriva da fuori viene percepita come meno volgare e quindi più accettabile della corrispondente ‘parolaccia autoctona’.
Dal punto di vista etimologico, il latino méntula dev’essere precocemente passato a mìntula, il quale poi, con trafila regolare, è diventato mincla, da cui minchia, esattamente come vetulu(m) dà veclu, da cui vecchio, e catulu(m) dà cacchio, nel senso primario di ‘germoglio, ributto di una pianta’. La parola latina è frequentissima nelle iscrizioni oscene dei graffiti di Pompei, e, anche solo a giudicare da quelle testimonianze, doveva essere d’uso altrettanto diffuso che oggi. Il dottissimo e divertentissimo libro Graffiti latini: scrivere sui muri a Roma antica del grande latinista Luca Canali riporta molte frasi immortali che la impiegano.
Le cosiddette parolacce, o parole tabù, e tutto il mondo delle offese, degli insulti e del turpiloquio sono di estremo interesse per i linguisti, e per la verità anche per i non linguisti: alzi la mano chi, incontrando per la prima volta un parlante di una lingua sconosciuta, non si è informato, innanzitutto, su come si dice… sappiamo tutti che cosa. Tecnicamente si usa il termine coprolalia, raffinato grecismo che vuol dire ‘parlare di merda’, anche se con questa parola ormai si indica quasi solo il disturbo psichiatrico per cui alcuni pazienti hanno un impulso automatico e irrefrenabile a dire parole oscene anche fuori contesto.
I motivi di interesse scientifico sono molti. Primo, le parole tabù sono un vero universale linguistico, per il fatto che esistono in tutte le lingue, e perché i loro ambiti di applicazione, per così dire, sono sempre gli stessi, e cioè la sessualità e gli escrementi, pur con qualche variazione. Poi perché hanno un enorme valore pragmatico, cioè comunicativo, molto superiore a quello del concetto anatomico o fisiologico che in teoria denotano: sono insomma estremamente connotate. Un bambino di 5 anni sa almeno tre o quattro parole, dalla più affettiva e familiare alla più volgare, che indicano tutte la stessa parte del corpo o la stessa funzione, ma che si usano (o non si dovrebbero usare) in contesti comunicativi completamente diversi. Poi, perché sono numerosissime, a coprire una gamma di concetti tutto sommato limitata, ma evidentemente di enorme interesse per tutti, in ogni epoca e in ogni luogo, ed è chiaro che è proprio il loro essere interdette che genera l’esplosione dei possibili sinonimi.
Un mio vecchio maestro, studioso coltissimo e raffinatissimo di dialetti rromanì/sinti (ma il discorso si potrebbe fare per qualunque lingua del mondo), che aveva come missione la promozione culturale e la difesa della lingua di quelle genti troppo spesso emarginate che spesso sono chiamati zingari, una volta mi disse che aveva tolto le ‘parolacce’ dal suo grande dizionario etimologico, per evitare polemiche e strumentalizzazioni. E gli dispiaceva, da una parte perché aveva trovato materiale interessantissimo, trattandosi di parole che avevano molto da insegnarci sulla storia e sulla cultura di quel popolo, dall’altra perché… gli si era quasi dimezzata la dimensione del libro. Infine, c’è un ulteriore motivo di interesse, di ordine psicolinguistico: alcuni studi sembrano dimostrare che in pazienti che hanno perso la capacità di parlare in seguito a gravi forme di danno cerebrale, per traumi o ictus, le uniche parole che sono ancora disponibili, cioè che questi pazienti riescono a produrre, sono queste ‘parole proibite’, che devono quindi essere memorizzate, così pare, in un’area diversa e specifica del cervello.