Nazionalismo

Le parole e le cose

na-zio-na-lì-smo

Significato Tendenza politica basata sull’esaltazione dell’idea di nazione e del principio di nazionalità; esaltazione eccessiva e acritica di tutto ciò che riguarda la propria nazione

Etimologia dal francese nationalisme, da national ‘nazionale’, a sua volta dall’antico francese nacion ‘nascita, discendenza, patria’, che deriva dal latino nationem (natio al nominativo), che significa ‘nascita, origine, specie, tribù’, ed è dalla radice di nasci ‘nascere’.

  • «Fra questi opposti nazionalismi non c'è molto spazio di dialogo.»

Dal 13 dicembre 1807, per quattordici domeniche di seguito, Johann Gottlieb Fichte tenne all’Accademia delle scienze di Berlino i suoi Discorsi alla nazione tedesca, allo scopo di risollevare la Germania dall’umiliazione in cui era sprofondata: l’anno precedente, Napoleone aveva occupato il Paese dopo aver sconfitto l’esercito prussiano a Jena e Auerstedt. Per rinascere era necessario, secondo Fichte, entrare in una nuova epoca, abbandonando l’intellettualismo, l’egoismo e il materialismo tipicamente illuministici. E il popolo tedesco, rigenerato in senso patriottico attraverso un’educazione nazionale, doveva guidare l’intera umanità verso quella nuova era. Ma perché proprio i tedeschi?

Non certo per superiorità razziale, a cui Fichte non credeva, bensì linguistica: il tedesco è una lingua viva, in quanto posseduta fin dalle origini, mentre nelle lingue romanze – in cui il latino, lingua straniera, ha prevalso sugli idiomi a esso preesistenti – si è spezzato il legame originario tra pensiero ed espressione, vita e lingua. Si obietterà che sostituire alla purezza della razza quella della lingua non fa poi tanta differenza, e difatti Ladislao Mittner, celebre filologo e critico novecentesco fiumano, ha definito i Discorsi di Fichte «vangelo del più cieco e brutale pangermanesimo»: con l’occupazione napoleonica, secondo lui, «nacque, proprio da un giorno all’altro, il nazionalismo tedesco; e il romanticismo tedesco, da cosmopolitico che era stato in origine, divenne nettamente e dichiaratamente nazionalistico». Ma il culto della nazione era precedente e indipendente da cause così estrinseche.

Nazione – dal latino natione(m), a sua volta da natus ‘nato’ – è etimologicamente nascita, generazione, poi popolo, gente, stirpe, la cui estensione geografica è stata sempre, però, assai variabile: un tempo, si parlava tanto di nazione fiorentina o veneziana quanto di francese o tedesca, e nel Medioevo ci si sentiva in primo luogo cristiani, poi borgognoni, piccardi o guasconi, e solo in terzo luogo francesi. Nel Settecento, poi, i pensatori illuministi si professavano cosmopoliti: per Voltaire «il filosofo non è né francese né inglese né fiorentino, egli è di tutti i paesi», e il patriota diventa fatalmente «nemico del resto degli uomini». Ma già nell’epoca dei Lumi spuntano i germogli della nuova sensibilità romantica.

Illuminista eretico, Rousseau affermava la centralità della nazione, perché «sono le istituzioni nazionali che formano il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo, che lo fanno esser lui e non un altro». In lui il principio di nazionalità era tutt’uno con quello democratico: rigettando i privilegi aristocratici e la concezione patrimoniale dello Stato (come proprietà privata del sovrano), egli rivendicava la sovranità popolare: padrone dello Stato è il popolo. Assai meno rassicurante la visione del nazionalismo di Johann Gottfried Herder, pensatore di poco posteriore, incentrata sull’idea dell’unicità incommensurabile di ogni nazione: «La generazione nazionale resta la stessa per millenni se non ha mescolanze estranee e opera con più forza se rimane avvinta alla sua terra come una pianta».

Un rassicurante Rousseau ci guarda benevolo da un ritratto di Maurice Quentin de La Tour datato intorno al 1750.

Appare già delineato, qui, il carattere bifronte del nazionalismo, che da sempre siamo abituati a suddividere in ‘buono’ e ‘cattivo’: quello risorgimentale e democratico di chi, come Mazzini, predicava il naturale diritto di ogni nazione a vivere unita e libera dal dominio straniero, e quello aggressivo e razzista di qualche decennio dopo, sfociato nell’imperialismo colonialista e nel nazifascismo. Ma entrambi, per quanto eterogenei appaiano, sono figli del Romanticismo e del suo culto delle radici, dell’identità e della tradizione, che aveva sostituito al cosmopolitismo illuministico il mito della nazione, della Patria unita e unica – per dirla con Manzoni, «una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor».

Mazzini condivide con Manzoni questo afflato religioso: per lui, la nazionalità è «la parte che Dio attribuisce a un popolo (…), la sua missione, il compito che deve svolgere sulla terra». Come ha scritto lo storico Federico Chabod, mentre nel Settecento la politica è arte elitaria, gioco intellettuale di pochi, l’Ottocento è l’epoca dell’opinione pubblica, in cui la politica si fa passione di massa, e passione nazionale di matrice religiosa: la nazione si identifica con la patria, e «la patria diviene la nuova divinità del mondo moderno».Non stupisce, quindi, che anche pensatori moderati come Vincenzo Gioberti parlino di primato (nel caso dell’Italia, «morale e civile») della propria nazione, né che la patria come missione di Mazzini sembri riecheggiare Hegel, per il quale lo Spirito del mondo (ossia Dio) si incarna, di volta in volta, nello spirito di un popolo, determinandone l’egemonia.

Certo, si può distinguere fieramente tra patriottismo e nazionalismo, sottolineando che l’idea di nazione deve essere sussunta in quella di umanità; ma quandunque si parli di «fede nella Patria», l’infausto Dio è con noi è lì a un passo. Le idee di missione, primato, fede e sacri confini – scaturissero pure dalle migliori intenzioni – incombevano come nubi minacciose sul candido cielo del connubio indissolubile tra nazione, libertà e umanità, foriere di rovinose tempeste.

Parola pubblicata il 01 Novembre 2022

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.