Paura
Dino Buzzati, le parole e i disegni
pa-ù-ra
Significato Turbamento, smarrimento, inquietudine per un pericolo
Etimologia dal latino pavor ‘paura’.
Parola pubblicata il 02 Febbraio 2022
Dino Buzzati, le parole e i disegni - con Lucia Masetti
Celebriamo il cinquantesimo anniversario della morte di Dino Buzzati, scrittore, pittore, giornalista — uno degli autori che amiamo di più — con una settimana di pubblicazioni a tema, col patrocinio dell’Associazione Internazionale Dino Buzzati.
Se ti dico che ho paura di aver finito tutta la pizza, o che ho paura di non poterti prestare anche gli ultimi spiccioli che ho in tasca, la mia non è vera paura — a meno che non tema la tua vendetta per lo spuntino mancato o che tu non mi stia estorcendo del denaro. Spesso la paura abita i nostri discorsi in una veste di cortese premura: la versatilità, l’adattamento, la trasfigurazione sono la sorte delle parole fondamentali — e in questo caso è anche un’emozione fondamentale, che riusciamo a condividere anche senza linguaggio, perfino con specie diverse.
Come nasce il nome di un’emozione fondamentale? Non in astratto, in una considerazione diretta del sentimento in sé; piuttosto, nasce cogliendo alcuni comportamenti correlati.
Riguardo alla paura, la ricostruzione più ricorrente e accettata (anche se con qualche riserva) è che si tratti di una parente… del pavimento. Il latino pavire significava ‘battere la terra’, ed è plausibile che il pavor da cui nasce la paura, figlio del pavere ‘esser preso da spavento’, condivida con quello un radice indoeuropea ricostruita come pau-, proprio col senso di ‘battere’. Ma che c’entra il battere con la paura?
Si possono avanzare alcune idee, che ci fanno toccare delle reazioni fisiche. Non solo ci è consueta l’immagine di uno spavento che colpisce, che tramortisce, ma nella paura l’agitazione può far battere piedi e denti, scuote. Dopo la paura, restiamo scossi.
Ma ‘paura’, proprio in quanto termine primario, è un po’ un termine ombrello, di genere, che copre specie diverse: l’ambivalenza dell’ansia, la ritrosia del timore, la specificità della fobia, lo scatenamento del panico, sono tutte paura. Esiti differenti di una medesima reazione di difesa, che sa abitare il ricordo, la previsione, la fantasia, in una preparazione di fuga o difesa di grande intimità e di grande evidenza.
Se potessimo attraversare il tempo e dare una sbirciatina in casa Buzzati dal buco della serratura, probabilmente troveremmo la luce accesa e radio e televisione blateranti qua e là per le stanze. Sempre. Anche se questo nostro viaggetto lo facessimo alle tre di notte. Perché anche da adulto Buzzati aveva un’enorme paura del buio e del silenzio.
Del resto, si sa, tutti gli scrittori sono un po’ eccentrici. O forse il loro problema è che sono troppo centrici, nel senso che scavano sotto la superficie di educate finzioni per arrivare fino al centro dell’anima, là dove giace, inconfessata e perenne, la paura.
Perché tutti, in realtà, abbiamo paura del buio. A tutti capita di starsene svegli nel letto, mentre il pensiero disegna fantasmi nell’aria. E se pensassero male di me? E se fallissi quel compito? E se perdessi chi amo? Poi ci sono le paure che non hanno nome, perché quello che temono è proprio l’ignoto: il futuro, la morte, il soprannaturale, l’incomprensibile enormità del mondo o la nostra stessa inettitudine.
Tic, tic, tic. È come la tortura della goccia cinese, salvo che questa non obbedisce neppure alla gravità: segue percorsi tortuosi, illogici. Ed è vano, avverte Buzzati, cercare di razionalizzarla. Infatti l’autore, dopo averci presentato il mistero della goccia che sale le scale, elenca una serie di interpretazioni allegoriche negandole tutte. Eh no, cari amici, così è troppo facile. Che paura sarebbe, se la si potesse afferrare?
Quello che più stupisce, però, è che l’opera di Buzzati non si limita a squadernare le sfumature della paura, come un fantasmagorico catalogo. Lui la paura la insegue, la desidera perfino. Prendiamo il racconto Il serpentone, in cui un paesino è percorso da ondate di speranza all’idea che lì accanto possa nascondersi un tremendo biscione. Reazione quantomeno curiosa. Eppure logicissima, dato che la paura è proprio ciò che dà colore a un’esistenza altrimenti piatta: è la voce dell’avventura e del mistero.
Insomma, per Buzzati la paura è un altro nome della fantasia. Un sintomo, quindi, della bizzarra grandezza dell’animo umano che non s’accontenta delle cose così come appaiono, ma trasforma l’esistenza in un romanzo a puntate, pieno di colpi di scena, di suspense e sobbalzi, di misteri impossibili da svelare. Chissà, forse il primo segno distintivo dell’umanità non è stato il culto dei morti o la pratica dell’arte; forse l’uomo è diventato tale quando ha iniziato ad avere paura del buio.