Prato
Scorci letterari
prà-to
Significato Superficie di terreno erboso
Etimologia dal latino pratum, di etimo incerto.
Parola pubblicata il 06 Novembre 2017
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Viene da chiedersi che cosa ci sia di più semplice del prato, che cosa possa riservare una riflessione su una parola del genere. Ma il fatto che questa parola continui a essere usata con alterazioni minime da decine di secoli, e che abbia stretti omologhi in ogni lingua romanza (cioè in ogni lingua derivata dal latino) ci fa subodorare qualcosa di speciale.
Purtroppo circa l’origine di pratum non sappiamo niente di certo. Sappiamo che da sempre descrive una superficie di terreno erboso, non coltivato, sgombro. Può essere naturale solo se il terreno è per qualche motivo ostile alla crescita di alberi, altrimenti alla lunga il prato si conserva tale solo per l’azione umana, diretta o mediata dal pascolo. Si tratta di una limpida cenosi di piante, che ispira sentimenti dei più gradevoli e tranquilli attraverso i suoi caratteri di varietà e ricchezza di composizione, di armonia, di apertura distesa. La sintesi di questi caratteri, concreti e ideali, è la specialità di questa parola.
Tant’è che si può figuratamente parlare del prato quale ambito piacevole e fertile (volgo le mie letture sul prato della storia medievale, ci si calma sul prato di amicizie sicure), e non sono mancate metafore che accostano il prato a componimenti belli e pregevoli (conosco ogni palmo del prato delle opere di un regista, si torna sempre sul prato della Divina Commedia).
Vedere un elemento di pensiero del genere attraversare i rivolgimenti della storia con tanta serena sicurezza mette quasi in soggezione.
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(Indovinello veronese, Anonimo)
Se pareba boves, alba pratalia aràba
et albo versorio teneba, et negro semen seminaba.
(Spingeva avanti i buoi, bianchi prati arava, un bianco aratro teneva e nero seme seminava.)
Avete presente quei momenti in cui, appoggiando la mano sul pancione di una mamma, si sente il bimbo scalciare? Bene, ecco a voi mamma Latino: e quel cosino che si agita dentro di lei è Italiano.
Siamo infatti nell’VIII secolo; ormai il latino orale si è evoluto nei diversi volgari e loro, assumendo gradualmente un’identità propria, cominciano a far capolino anche nello scritto. Questo testo è, in assoluto, la prima attestazione del processo (anche se forse il copista veronese non è ancora consapevole di scrivere in una lingua “nuova”).
Dunque l’italiano scritto inizia con un indovinello, scarabocchiato per scherzo o magari per provare una penna nuova. Già da questo si capisce che sarà una lingua simpatica.
Peraltro gli studiosi hanno discusso per anni sul significato della frase: c’era chi pensava a una semplice scena bucolica, chi a un’allusione sessuale. Un giorno, però, una studentessa del primo anno disse candidamente al suo professore: “Sa, dalle mie parti c’è un indovinello molto simile… e la soluzione è lo scrittore.”
Infatti i buoi sono le dita, che tenendo la penna d’oca spargono inchiostro sulle pagine. Semplicissimo, così semplice che ci voleva una matricola per capirlo.
Da allora l’indovinello è rimasto giustamente famoso; e forse il frammento più suggestivo è «alba pratalia», prati bianchi. La forma è arcaica: il latino “albus” non è stato ancora sostituito dal germanico “bianco”, e “pratalia” è un’evoluzione tardolatina di “pratum” (da cui è venuto poi “prataglia”, termine ormai estinto per “prateria”).
Proprio per questo, però, l’espressione ha un suo fascino: tanto che un poeta moderno, Zanzotto, ne ha fatto il perno della sua raccolta “Fosfeni”. In essa domina infatti il paesaggio del Nord, avvolto dalla neve; e questo spazio bianco è anche simbolo della parola vera, pura, opposta alla chiacchiera. Gli «alba pratalia» diventano così il luogo della parola autentica, che brilla «in ogni cristallo di brina»: volatile, eppure preziosissima.