Remigare
re-mi-gà-re (io rè-mi-go)
Significato Remare; muovere le ali in maniera regolare
Etimologia voce dotta recuperata dal latino remigare, derivato di remex ‘rematore’, da remus ‘remo’.
- «È sul lettino in mezzo alla piscina, e remiga con le mani cercando qualcuno che gli allunghi un cocktail.»
Parola pubblicata il 29 Luglio 2024
Se dicessimo che ‘remigare’ significa ‘remare’ diremmo insieme una cosa ovvia e una cosa imprecisa. Sono due verbi più che parenti, e però la sfumatura che hanno preso, pur insistendo sulla stessa azione, è differente. Insomma, sono parenti con diverse affinità che non si vedono mai e che vivono in posti completamente diversi.
Tutto nasce dal latino remus, che ha un’antica ascendenza indoeuropea, e che indica, be’, il remo. Da remus nasce il remex, il rematore, e dalla sua figura nasce il verbo di ciò che fa, giusto remigare, recuperato come prestito dotto dall’italiano. D’altro canto, per via popolare il remus dà vita al remo, e dal remo procede il remare. Quindi remigare, a differenza di remare, è etimologicamente una voce dotta. Ma non solo da questo punto di vista.
Non che il remigare e il remare si manifestino in modi di farlo diversi: il movimento e la fatica sono uguali, i luoghi in cui si praticano sono quelli. Ma cambia molto l’altezza del registro con cui quest’azione è rappresentata.
Il remare è un’azione presentata come spiccia, priva di solennità. Non ha nemmeno il tratto più prettamente marinaresco che riconosciamo al vogare — esito poetico di un vocare latino, che dipinge la ‘chiamata’ con cui il celeuste cadenza il colpo di remo. Nel giro fra caletta e caletta vengo sempre messo a remare con parole di adulazione, sullo stupendo lago dolomitico ci sono così tante barchette che quasi non si può remare, e in coppia con l’amico inetto quanto me remiamo in tondo col pattìno.
Il remigare invece ci parla di un remare che… non è spiccio. Appare speciale per contegno, per aura — chi parla o scrive ha l’intenzione di conferire a questo remare una statura alta, o mostra l’intenzione di esprimersi in maniera elevata. Posso parlare dello specchio dell’Arno su cui remigano i canottieri all’alba, del modo in cui l’amica ci fa attraversare il canale remigando a due braccia, e ci immaginiamo calmo e solenne il modo in cui gli equipaggi delle navi remigavano su e giù per il Nilo. E sentiamo anche che piacevole effetto ironico ha se racconto che quell’amico inetto ed io remighiamo in tondo.
Inoltre il remigare ha un vantaggio specifico sul remare: gli sono aperte le vie della metafora — che ne fanno in genere da un muovere qualcosa di simile a un remo a uno spostarsi. Posso parlare delle nuvole che remigano all’orizzonte (no che remano), posso parlare degli aironi che remigano in cielo — uso ricorrente, quello del remigare quale battere le ali cadenzato, remare celeste, e peraltro le penne remiganti sono quelle che costituiscono la superficie portante per il volo. Ma posso anche parlare dell’amico che remiga con le mani quando parla, o di quando remigo con le braccia per sgranchirmele, e via dicendo, secondo fantasia.
La parola più dotta non è solo più paludata: ha anche un respiro che le permette, fuori dalla stretta rappresentazione del consueto, di inseguire analogie alpestri con piede di capra. Da tener presente, questo remigare — anche perché, pur dotto, è del tutto trasparente.