Remoto
re-mò-to
Significato Che è molto lontano nel tempo o nello spazio; difficile da realizzarsi; isolato; che si trova a distanza
Etimologia voce dotta recuperata dal latino remotus ‘distante, appartato, libero, estraneo’, propriamente participio passato di removère ‘allontanare, rimuovere’.
- «Ne conservo solo un remoto ricordo.»
Parola pubblicata il 24 Giugno 2025
Nel nostro uso quotidiano non è affatto trasparente che ‘remoto’ sia un altro modo di dire ‘rimosso’, ma etimologicamente è proprio così, e questo ci apre qualche scorcio di bella verità.
La pianta è quella del latino removère, che è sì un ‘rimuovere’ e un ‘estromettere’, ma è anche e innanzitutto un ‘allontanare’. Il movère, ‘muovere’, è circostanziato dal prefisso re- che sospinge indietro — così il remotus si fa respinto, ricacciato?
Curiosamente, già in latino il participio passato di removère se ne distanzia. Piuttosto che alle lontananze dello scacciare, si avvicina a quelle dell’appartato; piuttosto che alle distanze frapposte dall’estromettere, fa proprie quelle del libero; piuttosto che il mettere da parte, il tenere alla larga, il togliere, il remotus sceglie le figure dell’alieno, dell’estraneo, dell’esente.
È sempre separato, beninteso. Ma in un modo completamente diverso, raccolto e conservato studiosamente dall’italiano. Così bene che il rimosso e il remoto sono diventati due tratti del tutto diversi, difficilmente riducibili.
Il remoto si colloca su delle coordinate: è lontano nel tempo, lontano nello spazio, lontano nella prospettiva, nella realizzabilità, lontano dalle frequentazioni e dalle folle, lontano dal solito, difficilmente contemplabile. Il suo profilo si fa sospeso, quasi etereo, difficilmente accessibile — di una poeticità leopardiana. Non è rimosso: è un altrove radicale, e quasi non si fa considerare, collegato a noi solo da un filo esilissimo.
Possiamo sentir parlare del passato remoto in cui, in questi stessi luoghi, si celebravano certe feste in esatti momenti dell’anno; posso parlare delle vette remote sulle quali, finalmente, sentiamo silenzio e pace anche dentro, delle calette remote in cui l’amica sa sempre portarci; puoi parlarmi della remota possibilità di successo che ha il nostro progetto, di come decidi di escludere la preoccupazione per uno scenario remoto; quando mi vedi assorto, forse sto vagando fra pensieri remoti, su remoti ricordi di poesie e di lacerti di passi; quando la tempesta è passata oltre, sentiamo ancora i tuoni di fulmini remoti.
E naturalmente abbiamo iniziato a lavorare da remoto, a fare incontri in remoto — locuzioni frutto di un’evoluzione recentissima e magnifica, nate in ambito informatico, che sottintendono il collegamento da un computer remoto. Qui il remoto, da sempre, è da un’altra parte, ed è un uso che ne valorizza l’indefinitezza. Il lavoro a distanza, gli incontri non in presenza, o in videochiamata, sono didascalici. Il remoto tratteggia un non-qui vago, che è semplicemente lontanissimo — appartato e libero d’essere dove vuole, come da remotus latino.