Rubesto

ru-bè-sto

Significato Robusto, vigoroso, selvaggio, impetuoso; duro, severo, brusco

Etimologia probabilmente dall’ipotetica forma del latino volgare rebustus (variante di robustus) con metatesi, cioè inversione, delle due vocali, forse successiva dall’apparente sostituzione della prima sillaba col prefisso frequentativo re-.

‘Robusto’ è un aggettivo che conosciamo bene, vi ricorriamo continuamente; la sua forza sta nella solidità, nella resistenza, nella sopportazione e anche in una certa massa. Ha la pulizia delle voci dotte, riprese senza sbavature dal latino.

Il rubesto invece è inusuale. Ma non è altri che è il suo fratello matto: giunto per via volgare, usurato e deformato di bocca in bocca durante secoli di oralità, la sua robustezza è gagliardamente estroversa in vigore, in impeto. Duro e brusco, arriva tanto al selvaggio quanto al severo. La radice è sempre quella della robur, della quercia, ma se il robusto della quercia ha anche la fermezza, il rubesto è il robusto in movimento, legno che sferza, che percuote, che batte.

Sono rubesti i venti che ci rabbuffano e rubesti gli scrosci di pioggia, rubesti gli atleti sprezzanti e bellicosi, rubeste le professoresse arcigne e accalorate, rubesto il comico che la dice con oltraggiosa schiettezza. Ha l’accessibilità di un termine della tradizione — sembra dialettale, e in effetti ha omologhi in diversi dialetti — e insieme una grande finezza e versatilità letteraria, che dagli albori dell’italiano arriva fino ad oggi.

Due volte la usa Dante nella Commedia.

La prima appressandosi al fondo dell’Inferno (XXXI canto), per descrivere il dibattersi del gigante Fialte che s’innalza terrificante davanti a lui e Virgilio, terribile e stretto in catene che gli bloccano un braccio al petto e un braccio dietro la schiena, e legato per il collo; afferma che mai un terremoto fu così rubesto da scuotere una torre così forte quanto si scuoteva rapidamente il torreggiante Fialte.

E poi, nell’Antipurgatorio, (Purgatorio, V canto). Guido da Montefeltro, anche se si era ritirato dalla sua vita da peccatore per salvarsi l’anima, era punito all’Inferno per il consiglio fraudolento che aveva dato a Bonifacio VIII facendosi da lui assolvere, vanamente, in anticipo: alla sua morte San Francesco e un diavolo si erano contesi la sua anima, e il diavolo aveva vinto con una logica stringente (Assolver non si può chi non si pente,/né pentere e volere insieme puossi / per la contraddizion che nol consente).

Suo figlio Bonconte ha la sorte opposta. Ferito a morte durante la battaglia di Campaldino, che combatté contro i fiorentini, se ne allontana brancolando fino alla confluenza dell’Archiano nell’Arno — e braccia a croce sul petto e in lacrime, si spenge nel nome di Maria. Un angelo e un diavolo giungono a contendersi la sua anima, ma stavolta il diavolo ha la peggio, perché Bonconte si è pentito all’ultimo. E furioso (per una lagrimetta!), quello si accanisce sul cadavere: scatena una tempesta che gonfia i fiumi. Lo corpo mio gelato in su la foce/ trovò l’Archian rubesto: l’Archiano rubesto lo sospinse nell’Arno, dove giacque e fu perduto, sepolto dai detriti.

Un episodio toccante non solo in sé: Dante combatté in quella stessa battaglia, contro di lui, e raccontando la sorte di Bonconte e del suo cadavere disperso non può non aver immaginato sé stesso al suo posto, e quanto rubesto potesse essere l’Archiano in piena; e non può non aver immaginato sé stesso come suo uccisore, tanti anni dopo. E questa è compassione distillata a lungo. Si vede bene: è una delle più magnifiche trasparenze della Commedia.

Parola pubblicata il 25 Marzo 2020