Sciccheria

scic-che-rì-a

Significato Eleganza; cosa elegante

Etimologia da scicche, adattamento del francese chic.

  • «Il piattino sotto alla tazzina? Che sciccheria!»

Le parole hanno spesso dei profili d’incantesimo, lo sappiamo: può bastare una sillaba per evocare all’istante un intero taglio di mondo, un’estensione reticolare di significati che si manifestano in maniera rizomatica nella nostra realtà, aure e atmosfere precise, nette, inequivocabili. Alcune sono i brillanti contro-incantesimi di altre — ed è il caso della nostra parola di oggi.

Dobbiamo iniziare interrogandoci sullo chic, sebbene non ci sia nulla di così poco chic come domandarsi che cosa sia chic — e in effetti è una domanda senza risposta. Come il mistico, dello chic si può fare un’esperienza personale diretta ma resta sostanzialmente incomunicabile.

Possiamo approssimare la definizione per cui si dice ‘chic’ chi o ciò che ha un’eleganza raffinata, ma è altamente insoddisfacente: la corona di un imperatore bizantino è certamente di eleganza raffinata, ma non la diremmo mai chic. Per capirci qualcosa ci serve l’etimologia, che ci porta — la stiamo bazzicando spesso, ultimamente — a Parigi.

Il termine ‘chic’ prende forza qui nell’Ottocento: la sua origine è forse tedesca, e secondo la ricostruzione che ha più credito va ricercata nel gergo dei pittori alsaziani che lavoravano in città. Il tedesco Schick significa ‘abilità, talento’: era chic chi o ciò che ce l’aveva, che aveva quella scintilla in più, che con la leggerezza della sprezzatura riusciva a cavalcare l’onda dell’uso nell’arte e nel vivere, l’onda di ciò che andava, in una finezza elegante sì, ma anche e soprattutto mondana, modaiola.

Ecco, il significato di ‘chic’, quando è stato ritagliato dal gran foglio del mondo, è rimasto incollato sul suo sfondo, e continua a portarselo dietro — perché non si possono circostanziare i nebulosi significati di ‘chic’ senza rilevare che ha un’imprescindibile sfumatura parigina, anche quando Parigi sembra lontana. Anche in questo sta la sua cifra intraducibile, che ne ha fatto un successo mondiale. Ma c’è un problema.

Il rischio concretissimo dello chic è una tremenda serietà. Parlare di persone chic, di giacche chic, di locali chic da un lato è icastico: con una sola sillaba, ecco una precisa dimensione di eleganza. Dall’altro è pretenzioso, si estende segnando distanze, superiorità. Come salvare capra e cavoli, come abbassare il tono mettendoci un sorriso ma conservando la suggestione, l’immediatezza descrittiva?

Innanzitutto si prende l’adattamento italiano, scicche — che da sé non funziona per niente, perché parte essenziale dell’incanto è che sia pronunciato in francese. Poi, lo si dota di un suffisso potente, che crea nomi di qualità ma con una sfumatura peggiorativa, ‘-erìa’. Riprende a funzionare: la sciccheria è senza ombra di dubbio una qualità di eleganza, quella medesima qualità di eleganza, e però è vista attraverso occhiali di popolo, di famiglia, che colgono lo chic e il suo lusso, ne subiscono il magnetismo, e però lo sanno ridimensionare, disinnescare — ne sanno ridere facendolo diventare amichevole. La schiccheria fa un po’ l’effetto di una sciccaggine.

Facciamo notare alla tavolata che sciccheria sia la nuova tovaglia; nella serata in cui ci vogliamo distinguere sfoggiamo una camicia stirata, una vera sciccheria; e ci godiamo la sciccheria della carta da parati nuova che abbiamo messo.

‘Sciccheria’ non è il contrario di ‘chic’. Se ‘chic’ fa un incanto di significato, parlare di ‘sciccheria’ fa un incanto uguale e contrario: stesso genere di eleganza, stessa qualità, ma rimessa in prospettiva, con un ribaltamento ironico di tale potere, tale da investire il carisma stesso dello chic.

Parola pubblicata il 13 Agosto 2022