Silenzio
Leopardi spiega parole
si-lèn-zio
Significato Assenza di suoni, rumori, voci; tranquillità, quiete; lo smettere di parlare, di emettere suoni; il non farsi sentire né dare notizia di sé; condizione di oblio, dimenticanza
Etimologia dal latino silentium ‘silenzio, oblio, calma, inattività, oscurità’, derivato di silère ‘essere silenzioso, stare tranquillo’.
- «Questo tuo silenzio mi annienta.»
Parola pubblicata il 01 Maggio 2023
Leopardi spiega parole - con Andrea Maltoni
Giacomo Leopardi, oltre ad essere un grande poeta, ha osservato e commentato esplicitamente molte parole della nostra lingua. Andrea Maltoni, dottoressa in filologia, in questo ciclo ci racconterà parole facendolo intervenire.
Parlare del silenzio è uno di quei paradossi che confondono il pensiero, un ossimoro che non lascia scampo, un atto che rischia di offendere l’essenza stessa dell’oggetto in questione. Eppure.
Per spiegare il silenzio si ricorre a definizioni inevitabili come assenza di suoni, rumori, voci: la sua logica sembra così essere quella della privazione, del nulla, la sua natura incarnarsi nel contrario della comunicazione.
Esso racchiude invece altro, non vuoto ma pieno, non assenza ma presenza: contiene infinite possibilità, è anzi lo spazio stesso dell’infinito.
È lì dove abita il silenzio che tutto può essere detto. Esso può essere eloquente di fronte a una domanda, una richiesta, una preghiera, si fa assordante quando dice che non c’è più nulla da dire; può parlare di un bisogno, un dolore, esprimere gioia immensa, sorpresa, può affermare una verità, svelare una menzogna; può dire l’amore. È ciò che, solo, può intervenire quando la parola si scopre impotente.
Il suo potere comunicativo è illimitato.
Ma illimitato è anche lo spazio che esso crea attorno a sé, aprendo all’irripetibile occasione dell’ascolto.
I latini disponevano di due verbi per affermare il silenzio, tacere e silere, ma la loro non era un’identità sinonimica: il primo parlava di un silenzio imposto, un disciplinato stare zitto, l’interruzione del dialogo; silere era invece “il profondo oscuro silenzio dove non risuona accento, donde non proviene eco” (L. Heilmann), un silenzio ambientale, o interiore, un silenzio che più che negare afferma sé stesso. Tra i suoi significati silere aveva anche l’idea di quiete e immobilità, di uno stare tranquillo - di uno stare: ecco l’eco dei sovrumani silenzi leopardiani.
In questo stare, il silenzio si rivela come un attento ascoltare in tutte le direzioni, un connettersi con quanto è intorno e dentro di noi, con ciò che sfugge alla parola, al suono:
In un mondo sempre più caotico, che non lascia spazi vuoti ma tende a riempire tutto di informazioni, immagini, concetti, suoni, distraendo dall’essenziale, l’invito al silenzio diventa sacro. E proprio in questo spazio sacro di ascolto e meditazione si può ritrovare la parola, pesarla, e solo allora portarla nel mondo - così da evitare l’inutile rumore.
L’antica suggestiva distinzione tra i due verbi latini si è tuttavia persa in un italiano che di tacere ha mantenuto la forma verbale mentre da silere ha sviluppato il sostantivo: si è così resa inevitabile la sovrapposizione tra i due.
Ecco dunque che la locuzione “fare silenzio” dice di fatto il tacere, blocca la parola o il suono, esattamente come quando “silenzio!” diventa un ordine dall’alto, ad esempio nel linguaggio militare.
Se esiste quindi un silenzio che sa comunicare e accogliere, che vive e respira, ne esiste parimenti uno che parla la lingua del vuoto, che sa accompagnare verso il nulla.
Così - come già il silentium latino - esso può anche dire l’oblio, l’oscurità, può parlare di discrezione e reticenza, del non dare notizia di sé (“dopo mesi di silenzio, hai il coraggio di ripresentarti così?”), di un dileguarsi lontano dalla notorietà; può esprimere il cadere in dimenticanza di eventi, cose, persone (“un’opera avvolta dal silenzio”), non soltanto per ragioni naturali. Con l’espressione congiura del silenzio si indica l’intenzione, accordata in modo più o meno esplicito tra più persone, di non parlare di un determinato argomento o di un certo individuo e del suo operato: una vera damnatio memoriae.
Una parola liminale, che spinge fin sulla soglia dell’ineffabile, che con la straniante pienezza di un vuoto solo apparente ha in sé il potere dell’infinito, di tutto ciò che esiste al di là delle parole.
È evidente come una voce del genere non potesse certo passare sotto silenzio tra le pagine zibaldoniane che scandagliano le più poetiche parole che adornano la nostra lingua.