Trimbulare

trim-bu-là-re (io trìm-bu-lo)

Significato Parola che ipoteticamente dovrebbe significare il verso che fa il coccodrillo

Etimologia di pretesa origine onomatopeica.

Oggi metteremo la parola ‘fine’ (forse) in fondo a una questione annosa sui coccodrilli, partendo dalla curiosa vicenda del ‘trimbulare’.

Lo status di questa parola è particolarmente divertente. È una parola che esiste, nel senso che è una parola che si trova riportata online in un sacco di articoli che affermano (sempre con le stesse parole, in uno psittacismo circolare) che si tratta del verso del coccodrillo. Un’informazione molto stimolante, spendibile come curiosità a buon mercato, pare.
E però è una parola senza storia, arbitraria, inventata non si sa bene come grossomodo una quindicina d’anni fa, e che ha iniziato a ronzare su internet. Naturalmente non è registrata da alcun dizionario, non ha impieghi letterari né si trova usata in maniera vitale — solo in un certo tipo di articoli profani specifici sul tema. Ma allora perché è stata tirata fuori?

La questione è celebre: il coccodrillo come fa? Questa è percepita come una lacuna. Si dovrà pur dire quale è il verso del coccodrillo — farà pure un verso, no? Così torna eccezionalmente utile un termine che sia onomatopeicamente capace di evocare i suoni tremuli sia gravi sia acuti (tale è la descrizione ricorrente online) emessi da questo grosso rettile — e immaginiamo anche dai colleghi d’ordine, alligatori e gaviali. O no?

No. Si tratta di un’istanza sciocca, per una lunga serie di motivi, uno più interessante dell’altro.
Innanzitutto, il verso degli animali è tendenzialmente una sfocatura. Il cane abbaia, ma non solo: sappiamo comunemente che uggiola, ulula, ringhia, latra, ustola — senza contare che, calando dal generico nel particolare, conosciamo il cane che squittisce, che borbotta, che gorgheggia. L’idea di un rapporto univoco fra un animale e il suo verso è estremamente approssimata, né si può pensare che dominare il nome di un verso dia automaticamente un’incisività descrittiva (o l’impressione di una certa proprietà di linguaggio). Dire che il coccodrillo trimbula non evoca un accidenti di niente — non è una conquista in sé. Oltretutto, come vedremo, è un’onomatopea congegnata male.

Alcuni versi difficili, pensiamo al bramire, corrispondono a suoni molto peculiari, inconfondibili. Ma sono suoni con cui il nostro popolo ha avuto molto a che fare nei millenni scorsi: possiamo dire che l’assiolo chiurla, che l’oca starnazza, che la cicala frinisce, che la rana gracida. Questi verbi (onomatoipeici come quasi tutti quelli che investono versi d’animale) sono stati accordati con la pazienza dei secoli sul manico della lingua finché non hanno risposto armoniosamente al suono che evocavano.

Il coccodrillo non è parte dell’ecosistema italiano, e i suoni che emette non sono, al nostro orecchio straniero, particolari. Perché… che diavolo di suoni emette il coccodrillo? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare, e — comodità sfatate della modernità — per scoprirlo non dobbiamo più aspettare la buona stagione per imbarcarci per l’Egitto, ma basta Youtube.

Il coccodrillo, alla grossa, fa due suoni: sibila e ruggisce. Non è un sibilo da biscetta, è un bel soffio, mentre il ruggito è da moto di grossa cilindrata, basso, non tenorile come quello dei felini. Insomma, fa suoni del genere che colleghiamo ai dinosauri di Jurassic Park — e a voler essere pignoli in effetti è un dinosauro del Triassico. I piccoli di coccodrillo, invece, fanno suoni più difficilmente descrivibili, ora sembrano cinguettii, ora vagiti, ora suoni elettronici — ma comunque non trimbulano.

Non si sa chi ha inventato il termine, ma per certo non ha avuto la curiosità di ascoltare i suoni della natura per conoscerli. Dire che un coccodrillo trimbula rende solo evidente che il coccodrillo, per chi parla, è una specie aliena: è come dire che i Krak͡ǂ di Alpha Arietis b stopciano a ogni getto di massa coronale.

Parola pubblicata il 17 Aprile 2021