Colophon

cò-lo-phon

Significato Nei libri quattrocenteschi, annotazione finale che porta il nome dello stampatore, di luogo e data di stampa, e simili; nei libri moderni, formula iniziale o finale che porta il ‘finito di stampare’ corredato dei dati d’obbligo; in cataloghi, programmi e pubblicazioni analoghe, elenco di curatori e collaboratori che vi hanno lavorato o che hanno contribuito all’iniziativa che presentano

Etimologia voce dotta recuperata dal latino còlophon, prestito dal greco kolophón ‘cima, compimento’.

È una parola che sorprende: da un lato promette di raccontarci un elemento comune dei libri e delle riviste che leggiamo, e addirittura di prospetti, programmi, cataloghi; dall’altro ha un aspetto impenetrabile, e la severità fascinosa di un grecismo.

Oggi se si parla di colophon, si intende quella formula — che si può trovare in testa o in coda a una pubblicazione — in cui si trova il ‘finito di stampare’, o in cui leggiamo un elenco di curatori, traduttori, grafici e collaboratori in genere che hanno lavorato alla pubblicazione stessa o all’iniziativa che presenta. È una formula che spesso interessa poco il lettore, e questo (insieme a un nome così tecnico) ne acuisce l’aura per addetti ai lavori. Ma il colophon non è sempre stato questo.

C’è chi parlando di colophon si cura di fare una retrospettiva su che cosa fosse il colophon nell’antichità, ma si tratta dell’applicazione di un concetto posteriore a una realtà anteriore: l’uso del colophon si è strutturato nel modo in cui lo intendiamo solo con la stampa. Anche se pare sia sempre piaciuto mettere qualche nota in coda ai testi — indicando autori, revisori e simili — in greco prima e in latino poi il colophon ha solo il senso generale di fastigio, apice, compimento, perfino tocco finale.

L’impiego del colophon era già una pratica diffusa nei manoscritti, ma in particolare è con gli incunaboli, cioè i primi libri stampati, nel XV secolo, che l’uso del colophon (anzi colofone, com’era adattato allora) acquista una sistematicità distintiva — e durante il Cinquecento prende questo nome, significando l’annotazione finale col nome dello stampatore, con luogo e data della stampa e altri dati analoghi. Di seguito il primo colophon a stampa che abbiamo, del De civitate Dei (‘La città di Dio’) di Sant’Agostino, stampato nel 1467, nel monastero di Santa Scolastica a Subiaco, dai tipografi tedeschi Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz.

In realtà il termine non avrà grande fortuna (forse perché colofone non è un termine dall’aura così carismatica? Sembra il nome di un pesce di fiume), e resterà un tecnicismo confinato alla pratica rinascimentale. Ci vorrà il Novecento perché non il colofone adattato, ma il colophon crudo si conquisti il suo successo — e questo invece ha qualcosa di esoterico, e proprio per il suo essere preciso e impressionante si rivela una parola estremamente piacevole da usare. Peraltro passerà anche a indicare un tipo di chiusura (desueto ma bellissimo) delle ultime righe di alcuni libri, che si vanno via via ad accorciare in una forma di trapezio stagliata sul bianco. Tutte splendide variazioni più o meno librarie del concetto di ‘tocco finale’.

Così l’amica entusiasta ci inviterà a guardare il colophon della mostra per vedere il suo nome in un ruolo a lungo ambito, si scorrono le pagine fino al colophon per scoprire che il libretto che abbiamo in mano ha cent’anni, e si guarda nel colophon della rivista per scegliere il nome giusto della redazione da contattare per avanzare la nostra proposta.

Parola pubblicata il 11 Febbraio 2021