Durlindana

Parole d'autore

dur-lin-dà-na

Significato Nome della spada di Orlando, paladino di Carlo Magno, e per estensione, sinonimo di spada; in senso scherzoso descrive qualunque oggetto lungo e stretto che si possa impugnare

Etimologia di origine sconosciuta, forse onomatopeica o forse connessa al latino durus, ‘durus’.

Da quasi dieci secoli due spade duellano per il titolo di arma più celebre del mondo occidentale: Excalibur, brandita da re Artù, e Durlindana, del paladino Orlando, le cui imprese sono cantate nella Chanson de geste.

Entrambe sono armi magiche, capaci di annichilire una catasta di nemici e persino di tener testa alla roccia. Se infatti la prima può penetrare nella pietra come in un panetto di burro, la seconda è refrattaria a ogni urto, come Orlando stesso scoprì quando, in fin di vita, tentò di spezzarla contro una roccia per impedire ai nemici di impadronirsene.

Tutto ciò che ottenne fu, pare, di danneggiare irreparabilmente i Pirenei, aprendovi appunto la “breccia di Orlando”. Risolse allora di nasconderla sotto il proprio corpo o, secondo un’altra leggenda, di lanciarla il più lontano possibile. La spada volò quindi per la bellezza di 300 km, fino al paesino francese di Rocamadour dove si conficcò (anche lei) in una roccia.

Del resto, a quanto si narra, Excalibur fu forgiata nel magico reame di Avalon mentre Durlindana fu donata da un angelo a Carlo Magno, che la diede poi a Orlando. Si tratta insomma di oggetti sovrannaturali, la cui energia può essere canalizzata solo da una data persona (il che le apparenta alle bacchette magiche). Vista la loro straordinarietà, quindi, non sorprende più di tanto che abbiano un nome, anche se il significato rimane un po’ oscuro.

Il linguista Spitzer, con scarso riguardo, ha ipotizzato che ‘Durlindana’ non derivi dalla leggendaria durezza della spada, bensì dalla posizione in cui quest’ultima, come quasi tutte le spade, passava la maggior parte del proprio tempo: ciondolando al fianco del suo padrone.

Il nome avrebbe infatti un’origine onomatopeica, evocante un (rumoroso) movimento oscillatorio. A sostegno di questa teoria Spitzer cita la somiglianza con il termine comasco ‘dirlindana’ o ‘tirlindana’, che descrive una lunga lenza fornita di piombini, e per estensione qualsiasi cosa lunga, stretta e pendula.

Una simile e assai irrispettosa estensione è spesso subita anche da Durlindana, che perdendo la lettera maiuscola finisce per designare non solo una qualunque spada, ma tutto ciò che vagamente le somiglia. “Passami quella durlindana, c’è una minestra da salvare” potrebbe dirmi mio padre in cucina, accennando al mestolo.

D’altro canto le spade magiche non sono certo gli unici oggetti dotati di un nome proprio. Tutte le navi per esempio ne hanno uno, e anche molte automobili; non per nulla in inglese è possibile riferirsi a entrambe con il pronome femminile ‘she’ invece del neutro ‘it’.

In effetti l’antropomorfizzazione degli oggetti, per quanto bizzarra possa sembrare, è un’abitudine propria degli uomini. Pressoché tutti i bambini al di sotto dei tre anni sono convinti che gli oggetti pensino per conto proprio, e tale convinzione sopravvive parzialmente in molti adulti (chi di noi non ha mai attribuito una volontà maligna al proprio computer?).

Nicholas Epley, uno dei massimi esperti di questo fenomeno, lo spiega con due motivazioni: esercitare le capacità di socializzazione e cercare di controllare (almeno con la fantasia) eventi complessi, attribuendoli all’intenzionalità di una mente simile alla nostra.

Le teorie della “mente estesa” aggiungono anche un ulteriore tassello: noi carichiamo gli oggetti che ci circondano di un investimento emotivo, in qualche modo gli affidiamo una parte della nostra identità. In realtà quindi il mondo inanimato per noi non è affatto tale, giacché racchiude la nostra anima.

Parola pubblicata il 16 Agosto 2021

Parole d'autore - con Lucia Masetti

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