Pastrano

pa-strà-no

Significato Cappotto invernale pesante, rustico, disadorno, specie usato dai militari

Etimologia da Pastrana, città della provincia spagnola di Guadalajara, e in particolare dal duca di Pastrana.

  • «Sulla soglia, appoggiò la legna a terra e si tolse la neve dal pastrano.»

La parola sembrerebbe semplice e nemmeno troppo interessante, al massimo pare promettere qualche aneddoto storico sulla sua origine — ma c’è tanto di più. Questa parola e il suo uso ci possono mostrare alcuni meccanismi pulsanti di come scegliamo certe parole, e come ci si proiettano in mente — quindi oggi diremo qualche frase in più.

Iniziamo dicendo questo: si sa che il pastrano è un capo d’abbigliamento, in particolare un tipo di cappotto, con qualche carattere di rusticità definito ma non troppo. Non si sa proprio bene come dovrebbe essere. Non è un termine corrente della moda, non si trovano prodotti in commercio con questo nome — facendo una rapida ricerca di un ‘pastrano’ ci può essere offerto di tutto, dal trench al poncho antipioggia, al cappotto vintage. Quindi ci manca un riferimento univoco e pronto. È un termine abbastanza generico.

I dizionari si affrettano in nostro soccorso, dicendoci che si tratta di un ‘cappotto pesante’, e indicando che è ‘specie usato da militari’. Grazie. Contando che la parola è attestata nella seconda metà del Seicento e che tanti cappotti hanno una genesi militare, ciò non contribuisce a restringere troppo il campo del possibile — c’è dentro dall’ambientazione cappa e spada fino a oggi, anche se spesso il pastrano è attrtto da un immaginario militare primonovecentesco (ma, dicevamo, è cosa comune coi cappotti).

Perfino l’origine del suo nome è nebulosa. Secondo una ricostruzione pacifica e perplessa, deriva dalla città spagnola di Pastrana, nella centralissima provincia di Guadalajara — e in particolare dal lignaggio del ducato di Pastrana. Il terzo duca di Pastrana, Ruy Gómez de Silva y Mendoza, ebbe un incarico negli anni ‘20 del Seicento come ambasciatore nella grande Roma dell’esplosione barocca, presso il papa. Incarico, a leggere i resoconti storici, inconcludente, relativamente breve, dimenticabile. Delle sue eventuali eccentricità, dei suoi possibili carismi, niente è passato alla storia con particolare evidenza. Quindi non si capisce proprio per nulla com’è che il caro duca abbia ispirato (o dato?) il nome a ‘sto cappotto a Roma. Ma vogliamo vedere qual è la cosa davvero curiosa del pastrano?

Questo nome non è mai stato usato quanto oggi. Pare rétro, desueto? Ebbene, anche se non lo compriamo o cuciamo, anche se non lo indossiamo (almeno non con la consapevolezza esplicita ‘indosserò il pastrano’), anche se è un capo d’abbigliamento generico a cui non sappiamo dare che una definizione astratta e un’ondivaga collocazione temporale, il suo nome è nella sua epoca d’oro, al suo massimo splendore — rampante dal 2000. Perché?

Sbagliamo, se pensiamo che le parole seguano soltanto la realtà, che cerchino di catturarla così com’è. In molti casi — casi poetici, ma di una poesia molto diffusa — la parola precede la realtà. Non la vuole descrivere, la vuole generare. Il pastrano è un cappotto quasi irreale, e però ha dei caratteri molto precisi, molto evocativi, che si ripercuotono in maniera netta sulla psicologia di chi lo indossi. È pesante, funzionale, ruvido — non sempre povero, ma se ha qualche grazia non emerge. Difficile che non abbia tasche. Va bene per il freddo, va bene per la pioggia, ma pare più ingombrante e ingessante piuttosto che impermeabile e caldo.

È la vocazione letteraria di questa parola, di questa nuvola di significati che si sono agglutinati insieme quasi a prescindere dall’esistenza di un oggetto referente preciso, a determinarne il successo contemporaneo. Ha quella vaghezza leopardiana che lascia le briglie della fantasia in mano a chi legge o ascolta, non è un termine didascalico, pedissequamente descrittivo, che può essere sicuro di delineare una foggia specifica: restano gli echi di cappotti militari, magari un po’ grossi, che però non ci danno modelli chiari. È un cappotto non raffinato, certo; è un cappotto invernale, sicuro; ma soprattutto è un cappotto letterario.

Se dico che la nonna esce sempre di casa col pastrano, anche quando fanno quaranta gradi, io non intendo comunicare in maniera asciutta che sì, bizzarro, indossa un soprabito laddove non sarebbe affatto necessario: intendo evocare — anche grazie a un suono greve, impastato di strano e sonorità spregiative — tutta una dimensione orsina d’ingombranza, sgraziataggine. Se noto come alla cassetta della posta il vicino abbia scorso le lettere e se ne sia cacciata una nel pastrano con fare circospetto, trasmetto il senso di un abito in cui si possa cacciare qualcosa, anche frettolosamente, e di una tendenza del vicino alla copertura funzionale, rustica, senza ornamenti; se racconto di come ho abbandonato il pastrano a terra quando sono rientrato in casa, ecco che cade con pesantezza quasi imponente.

Non è una parola della moda anche perché il pastrano, in effetti, non pare essere un oggetto bello e desiderabile. Però lo sguardo della poesia anche quotidiana, l’orecchio letterario interno, ci riconosce dentro la potenzialità di un profilo d’abito che non si concentra sulle contingenze del taglio, ma su possibilità teatrali, drammatiche. Ed è una bella ragione di successo.

Parola pubblicata il 13 Settembre 2022