Pinsa

pìn-sa

Significato Focaccia simile alla pizza, di forma ovale, fatta con una speciale miscela di farine, tipica della cucina romana contemporanea

Etimologia adattato dal verbo latino pìnsere o pinsàre ‘battere, pigiare’.

  • «Volevo fare la pinsa a casa ma mi sono scordato la pasta a lievitare in frigo per una settimana.»

Più che una lingua morta il latino è una lingua non-morta, che senza essere corrente come lingua di popolo continua tuttavia a produrre termini nuovi. Si potrebbe pensare che in casi del genere serva un esorcista, ma invece non è strano: è letteralmente una lingua continuata dalla nostra, e ha una storia di decine di secoli in cui ha accumulato un patrimonio di suggestioni e immaginazione formidabile — perché non attingervi, ad esempio quando si vuole lanciare un nuovo prodotto gastronomico? Magari con qualche ricamino di storia romana, che non guasta mai.

La pinsa è una pietanza che viene offerta in una quantità di locali fioriti negli ultimi venti anni in tutto il Paese, con un baricentro a Roma. La prima impressione riguardo a questo nome — mettendo a fuoco l’insegna — calza straordinariamente bene sul prodotto: è simile a pizza, ma non vuole passar per pizza.

Si dovrebbe trattare di un nome derivato dal verbo latino pìnsere, o pinsàre, che significa fra le altre cose ‘battere, pigiare’ — il che non la allontana troppo da una schiacciata, come significato. E c’è una certa narrazione, dietro, che camerieri e cameriere zelanti non mancano di riportare come verità (ma è teatro, e dopotutto il teatro come diceva Brecht deve innanzitutto divertire): dovrebbe trattarsi del recupero di una ricetta antica, di epoca romana, tale da essere addirittura citata nell’Eneide. Una focaccia di farine povere che allude a un rapporto atavico col territorio.

Se fosse possibile un recupero di una focaccia del genere, innanzitutto dovremmo dubitare che ci potrebbe ingolosire: i romani delle origini avevano delle peculiari pizze secche di farro che facevano schifo, tanto che erano talvolta commestibili, sì, ma solo usandole come piatto, e intridendole dei sughi di altre pietanze (questo tipo di focaccia-piatto era detta mensa). Per chiarire che roba fossero, se vogliamo restare sull’Eneide, l’arpia Celeno, tempestosa personificazione del buio, quando profetizza a Enea la terribile fame che lo aspetta in Italia gli dice ‘mangerete anche le mense’ — una profezia che si avvererà, e Iulo figlio di Enea se ne ricorderà quando lo staranno facendo «Heus, etiam mensas consumimus» («Ahi, anche le mense ci mangiamo»). Anche la mola salsa, focaccia sacra, era sempre un piattone di farro non lievitato, ingentilito con del sale — anche se era preparata con un rito speciale, e il suo sacrificio è la base del nostro immolare. Per fortuna la pinsa è un’altra cosa, molto più buona.

Si tratta di un prodotto ideato nei primi anni di questo secolo dall’imprenditore Corrado Di Marco, di forma ovale e con una miscela di farine che non è antica — soia, riso, frumento (anche il grano era una cosa un po’ strana per il popolo della Roma arcaica). L’impasto ha un’alta idratazione e complessivamente è detta ben più digeribile della pizza.

La prospettiva linguistica è tanto più interessante: non siamo davanti a un recupero di un passato glorioso, ma davanti al posizionamento sul mercato di un nuovo prodotto che vuole fare concorrenza a uno dei piatti più famosi del mondo; e non lo fa cercando un nome vacuo, ma ha l’ironia smaliziata, levantina e vagamente dotta di farsi delle domande su di sé e di inventare il proprio nome frugando nel dizionario di latino.

Parola pubblicata il 20 Ottobre 2022