Sarcofago

sar-cò-fa-go

Significato Grande urna sepolcrale

Etimologia voce dotta recuperata dal latino sarcophagus ‘carnivoro’, dal greco sarkophágos, composto di sárx ‘carne’ e -phágos, elemento derivato da phagêin ‘mangiare’.

  • «Che c'è scritto su quel sarcofago?»

Sopravvivono i riti di sarcofagia e cannibalismo

Lo canta Franco Battiato in Sarcofagia, dell’album Ferro battuto — una canzone svelta imperniata sull’orrore dell’uccidere per nutrirsi. È un verso che esprime un concetto comune, facile, ricorrendo però a una parola che si fa notare per la sua fine enigmaticità. Che cos’è la sarcofagia? E perché assomiglia tanto al sarcofago? L’etimologia ci dà tutte le risposte.

Il greco sarkophágos significa ‘carnivoro’, ed è un termine composto con grande linearità: nel secondo elemento riconosciamo una derivazione di phagêin ‘mangiare’, ricorrente in decine d’altre parole composte dell’italiano; il primo elemento invece ha una presenza meno diffusa, ma elementare: è dal greco sárx (sarkós al genitivo), che significa ‘carne’ — lo troviamo nel poco simpatico sarcasmo e nell’ancor meno simpatico sarcoma.

Ma com’è che un aggettivo che indica il carnivoro si fa nome d’urna sepolcrale? Sarà una connessione poetica un po’ intuitiva fra carne e morte, o potremo contare su passaggi analitici?

In antichità questa faccenda della decomposizione dei corpi non era proprio chiarissima. Come funziona, perché? È vero, c’erano tradizioni millenarie di conservazione dei corpi — pensiamo alle mummie — che sembrano fondate su conoscenze solide, ma parimenti millenarie sono le giostre delle panzane di cui portiamo ricca memoria.
Fra l’altro, era convinzione comune nel Mediterraneo che certe pietre fossero particolarmente adatte per la realizzazione di urne e lapidi perché, per proprietà intrinseche, consumavano i cadaveri. Insomma, pietre sarcofaghe (sarkophagos lithos) — da cui sepolcri di pietra denominabili ‘sarcofagi’. Ma non evitiamo il punto: che pietre sono? Quali sono le rocce sarcofaghe?

Ne abbiamo alcune, cavate da siti specifici, che hanno avuto una fama formidabile, ad esempio la pietra di Asso (Lapis assius in latino), città della troade, affacciata sull’Egeo subito a nord dell’isola di Lesbo — che qualcuno, con puntualità certosina, ha annotato capace di consumare un cadavere in quaranta giorni piuttosto che nei normali decenni (Plinio il Vecchio, non cambi mai). In generale comunque la famiglia delle pietre sarcofaghe pare si possa generalizzare in una famiglia di calcari, nonostante poi l’oggetto di cui stiamo parlando sia stato costruito con le più diverse fogge e ornamenti e materiali — terracotta, legno, granito, calcare, e ovviamente oro massiccio.

Il tratto forse più caratteristico del sarcofago è che si tratta di un sepolcro fuori terra. Non è una bara votata a disgregarsi con silenziosa discrezione in una buca ricoperta, ma un monumento per aule, necropoli, santuari, praticamente inamovibile — e soprattutto, spesso è parlante. Geroglifici, iscrizioni essenziali e meno essenziali, sculture, parti istoriate, rappresentazioni tenere o maestose di chi vi riposa, fanno sì che queste grandi urne che abitano spazi superficiali, luoghi accessibili (anche se magari rinserrati, sigillati), siano elementi di comunicazione religiosa e civile. Il sarcofago si rivolge a noi, alla nostra realtà — piccolo ponte con l’aldilà. A quell’aldilà ci permette un accesso facilitato, rituale o spirituale.

In questa sua peculiare natura, tanto affascinante, tanto presente (specie rispetto alle lapidi bidimensionali), tanto adatta a immortalare una persona, conserviamo il riferimento bizzarro di una consumazione. A leggerlo altrimenti pare quasi un nome di mostro — sarcofago — che per il suo servigio richieda un’offerta di carne.

Parola pubblicata il 26 Ottobre 2023