Sempiezzo

sem-pièz-zo

Significato Stupidaggine, sciocchezza nel linguaggio del dottor Levi, padre di Natalia Ginzburg, e nel dialetto triestino

Etimologia probabilmente dalla parola scempiaggine, che nei dialetti del Veneto e della Venezia Giulia diventa sempiaggine, ma anche sempiada o sempiezzo; questa da scempio nel senso di ‘sciocco’, dal latino simplus ‘semplice’.

  • «Non l'ascolto nemmeno, dice sempre sempiezzi.»

C’è poco da dire: i sempiezzi sono le gesta dei sempi. Le scempiaggini sono le gesta degli scemi. Lo sapeva bene il dottor Levi, al quale, insieme alla moglie milanese, toccava dirigere una baraonda di ben cinque figli (Paola, Alberto, Mario, Gino e Natalia) tutti di intelligenze e idiosincrasie spiccatissime, in un’Italia in cui il fascismo roboava tonante, raccontata nel libro ‘Lessico famigliare’. Quali erano, questi sempiezzi? Per esempio, le poesie, che la moglie e le figlie declamavano in casa. Quella era una cosa insopportabile, e il dottor Levi sbottava:

Sempre a dir sempiezzi! Sempre a fare il teatrino!

O anche qualche romanzetto:

– È bello quel romanzo, Beppino? – chiedeva mia madre. – Macché! Una noia! Un sempiezzo! – rispondeva alzando le spalle. Leggeva però con la più viva attenzione; e intanto fumava la pipa.

Le parole di Giuseppe Levi, quel lessico meravigliosamente colorato, ci portano in un mondo familiare intriso di politica, attualità dell’epoca e vivacissimi personaggi, descritti in modo così fine, impietoso e semplice che pare proprio di vederseli davanti. C’era, per esempio, ‘quel sempio di un Terni’, uno degli amici più cari:

Terni era un biologo, e mio padre ne aveva, riguardo agli studi, una grande stima; usava però dire ‘quel sempio di un Terni’, perché trovava che era, nel vivere, un poseur. – Terni posa, – diceva di lui ogni volta dopo che l’aveva incontrato. – Credo che posi, – riprendeva dopo un po’. […] – Terni! – urlava, - venga qua! Non faccia tanto il sempio! – Non faccia il pagliaccio! - gli urlava, quando Terni, con i suoi sussurri estatici, cacciava il naso nelle tende logore e polverose della nostra sala da pranzo, chiedendo se erano nuove.

No, Giuseppe Levi non usava mezzi termini, era per dire le cose come stanno. E nel dirle usava quel suo giudaico-triestino ricamato di frequentissimi punti esclamativi (ci sono un mucchio di punti esclamativi in Lessico famigliare), tantoché pare di sentire le pagine sbraitare malamente mentre sfogliamo il libro.

La parola sempiezzo è un termine triestino, che, insieme a sempiada, deriva da sempiaggine, la versione locale della parola scempiaggine. Ma la forza domestica veicolata dal termine dialettale è più netta, più secca: d’altra parte chiunque reagisce ben più velocemente e veementemente ad un rimprovero che gli viene dato nel dialetto di casa che non ad un’esortazione in italiano corretto! Sarà per l’abitudine, forse, ma soprattutto per il sostrato denso di mimica facciale e gravità che si cela dietro un termine dialettale, noto solo a chi lo ha vissuto sulla propria pelle, conseguenza delle proprie malefatte monellesche.

Tornando al dotto Levi, non era proprio tipo da smancerie, e se le negrigure erano il peggio del peggio, come ad esempio ricevere ospiti senza ‘dar trattamento’, ovvero servire tè e biscotti («Come, non c’è trattamento? Non si può ricevere la gente senza trattamento!»), subito dopo, per gravità, venivano i sempiezzi. Di cui quel povero Terni pare esser stato campione:

Vaniloquio! […] Sono stufo di questo vostro vaniloquio! […] Terni! Ancora non ha finito quel suo lavoro sulla patologia dei tessuti! Lei perde troppo tempo in sempiezzi!

Ditemi se anche voi non vi sentite bastonati e con la coda tra le gambe…

Parola pubblicata il 30 Ottobre 2022