Etimologia voce dotta recuperata dal latino exsecrabilis, derivato dal verbo exsecràre ‘togliere il carattere sacro’, composto parasintetico di sacer ‘sacro’, col prefisso ex- ‘fuori’.
Questa parola interessa un tratto di mondo su cui insistono e si affollano decine e decine d’altre parole — e sappiamo che cosa vuol dire questo fatto: evidentemente è un tratto di mondo importante, di quelli che troviamo più interessanti e urgenti da descrivere con dovizia di dettagli.
In effetti, questo particolare carattere ha un rilievo sociale assoluto — naturale, per un animale pettegolo come siamo noi. È la sconfinata regione del degno di biasimo, per la quale di solito ci accontentiamo delle vastità versatili e variopinte del turpiloquio, ma che abbiamo modo di significare con una palette semplicemente sesquipedale.
Qui spiccano (prendiamo giusto le prime che affiorano, a scavare non si finirebbe più) le asprezze globali del miserabile e del misero, dell’ignobile e del vile, i giudizi un po’ più complessi dell’indegno, dello spregevole, perfino del disonorevole, le bassezze pratiche del volgare, del vergognoso, del disgustoso e del basso stesso, senza contare le serietà dell’infame, dello scellerato, dell’iniquo e del turpe e dell’immondo e dell’abominevole e (prendiamo fiato) dell’abietto, come anche le finezze del deprecabile, del detestabile, del meschino, del biasimevole e di uno scoperto inqualificabile. A questa folla che folleggia sul tratto sudicio di realtà che più ci attrae, si aggiunge con passo maestoso l’esecrabile, portandoci in dote un grado d’intensità che si può definire solo come sommo, e un’etimologia, una consistenza di significato che lo diparte per nobiltà e profondità da ogni collega.
L’atto che descrive l’esecrare non è una maledizione generica. Certo l’exsecrare latino era anche pronunciare una maledizione, o perfino un giuramento terribile con imprecazioni. Ma il dato eccezionale è che un’azione così drammatica viene significata, in negativo, quale rimozione di un fondamento di dignità — più precisamente è un togliere il carattere sacro, assimilabile a uno sciogliere un voto. Potremmo leggerlo come un atto contrario al consacrare: il risultato è estremamente intenso.
L’esecrabile — ciò che si può esecrare, che è degno d’essere esecrato — non è un semplice ‘maledetto’ coperto d’improperi e ingiurie e giustamente vituperato su ogni piano terrestre e celeste: viene sganciato un fondamento d’essenza, addio addio. Prima apparteneva a una devozione generale (e suggestivamente naturale), e l’esecrare gli molla l’ormeggio, lo restituisce a un tempestoso sotto-mondo senza dignità sacre, odioso in quanto privo di significato e appartenenza e accesso all’alto.
Poi ovviamente l’atto si riconduce, nella pratica già latina, a un mandare all’Inferno generale e genuino: tutto tende a normalizzarsi — ma è tremendo ciò che si nasconde dentro a certe parole auliche, che a volte ci paiono perfino affettate.
Così sentiamo parlare di collusioni esecrabili, di esecrabili fatti di cronaca, di pratiche esecrabili che si diffondono; in questi usi l’esecrabile, con la sua dimensione di undegno di maledizione e il suo registro elevato da parola ricercata, si mostra serio, e mostra un serio giudizio morale. Ricordiamo però, e teniamo però conto che qui, in questo simulacro normalizzato di biasimo, proprio qui dentro c’è l’atto più grave, la destituzione più radicale, con orrore e disprezzo supremi. È una parola che forse (almeno a volte) richiede un’attenzione in più: si deve scegliere con presenza ciò che esecriamo, perché è un’azione irremeabile. È l’ultima maledizione, e non si torna indietro.
Questa parola interessa un tratto di mondo su cui insistono e si affollano decine e decine d’altre parole — e sappiamo che cosa vuol dire questo fatto: evidentemente è un tratto di mondo importante, di quelli che troviamo più interessanti e urgenti da descrivere con dovizia di dettagli.
In effetti, questo particolare carattere ha un rilievo sociale assoluto — naturale, per un animale pettegolo come siamo noi. È la sconfinata regione del degno di biasimo, per la quale di solito ci accontentiamo delle vastità versatili e variopinte del turpiloquio, ma che abbiamo modo di significare con una palette semplicemente sesquipedale.
Qui spiccano (prendiamo giusto le prime che affiorano, a scavare non si finirebbe più) le asprezze globali del miserabile e del misero, dell’ignobile e del vile, i giudizi un po’ più complessi dell’indegno, dello spregevole, perfino del disonorevole, le bassezze pratiche del volgare, del vergognoso, del disgustoso e del basso stesso, senza contare le serietà dell’infame, dello scellerato, dell’iniquo e del turpe e dell’immondo e dell’abominevole e (prendiamo fiato) dell’abietto, come anche le finezze del deprecabile, del detestabile, del meschino, del biasimevole e di uno scoperto inqualificabile. A questa folla che folleggia sul tratto sudicio di realtà che più ci attrae, si aggiunge con passo maestoso l’esecrabile, portandoci in dote un grado d’intensità che si può definire solo come sommo, e un’etimologia, una consistenza di significato che lo diparte per nobiltà e profondità da ogni collega.
L’atto che descrive l’esecrare non è una maledizione generica. Certo l’exsecrare latino era anche pronunciare una maledizione, o perfino un giuramento terribile con imprecazioni. Ma il dato eccezionale è che un’azione così drammatica viene significata, in negativo, quale rimozione di un fondamento di dignità — più precisamente è un togliere il carattere sacro, assimilabile a uno sciogliere un voto. Potremmo leggerlo come un atto contrario al consacrare: il risultato è estremamente intenso.
L’esecrabile — ciò che si può esecrare, che è degno d’essere esecrato — non è un semplice ‘maledetto’ coperto d’improperi e ingiurie e giustamente vituperato su ogni piano terrestre e celeste: viene sganciato un fondamento d’essenza, addio addio. Prima apparteneva a una devozione generale (e suggestivamente naturale), e l’esecrare gli molla l’ormeggio, lo restituisce a un tempestoso sotto-mondo senza dignità sacre, odioso in quanto privo di significato e appartenenza e accesso all’alto.
Poi ovviamente l’atto si riconduce, nella pratica già latina, a un mandare all’Inferno generale e genuino: tutto tende a normalizzarsi — ma è tremendo ciò che si nasconde dentro a certe parole auliche, che a volte ci paiono perfino affettate.
Così sentiamo parlare di collusioni esecrabili, di esecrabili fatti di cronaca, di pratiche esecrabili che si diffondono; in questi usi l’esecrabile, con la sua dimensione di undegno di maledizione e il suo registro elevato da parola ricercata, si mostra serio, e mostra un serio giudizio morale. Ricordiamo però, e teniamo però conto che qui, in questo simulacro normalizzato di biasimo, proprio qui dentro c’è l’atto più grave, la destituzione più radicale, con orrore e disprezzo supremi. È una parola che forse (almeno a volte) richiede un’attenzione in più: si deve scegliere con presenza ciò che esecriamo, perché è un’azione irremeabile. È l’ultima maledizione, e non si torna indietro.