Avaro

a-và-ro

Significato Tirchio; restio a concedere, a dare, a esprimere; che dà poco prodotto

Etimologia voce dotta recuperata dal latino avarus, derivato del verbo avère ‘bramare, desiderare ardentemente’.

Ricordando i nomi dei diversi popoli barbari che attaccarono l’Impero Romano, e che magari vi fondarono regni anche non effimeri, troviamo nomi noti, di cui alcuni sono entrati nel vocabolario per diverse antonomasie: se dico che sono stati dei vandali, o che questo articolo mi pare ostrogoto, e che sono passati in cucina come Unni, la chiarezza delle immagini che ci si formano in mente testimonia quanto siano vivi i barbari nel nostro immaginario. Vuoi vedere che il popolo barbaro degli Àvari c’entra con l’avarizia?

La risposta breve è no. Per comprendere il termine ‘avàro’ non si deve ricostruire la storia di un popolo: solo, dobbiamo comprendere il verbo latino avère. E attenzione all’abbaglio! Non è il verbo habère, da cui deriva il nostro avere (io ho, tu hai). Anzi non è nemmeno un verbo suo parente: significa ‘bramare, desiderare ardentemente’, con echi frammentari in lingue lontane, dall’India alla Cornovaglia. Forse, invece, ha qualcosa a che fare, con l’adulare. Piuttosto, l’avarus è certamente fratello dell’avidus, da cui si discosta solo per una differente formazione.

E siamo già a un piccolo cortocircuito di significati. Infatti l’avaro, recupero dotto del Duecento, si mostra a un tempo bramoso e avido così come spilorcio e restio a dare. Due concetti distinti e isolabili che si ritrovano ad essere geneticamente vicini: non comune che la bramosia si accompagni alla prodigalità, o che la taccagneria prosperi senza brama.

Proprio per questa sua complessità reale l’avaro si distingue come termine eloquente, ricco di significato. Infatti, anche se ormai si sta spartendo questo carattere umano bifronte con l’avido, prendendo per sé l’essere restio a dare, e lasciando a quello la bramosia, la sua resta una qualità psicologica tornita. Posso essere avaro di notizie, che comunico solo nella misura necessaria, avaro di complimenti, avaro di favori; e davanti a una terra che con molto lavoro dà poco frutto dirò che è avara, davanti al libro che fa sudare informazioni essenziali dirò che è ostico e avaro. L’avaro, sembra, brama e conserva ciò che ha, ciò che sarebbe in suo potere dare.

E gli Àvari? Ora, c’è un tratto curioso della loro storia che ha alimentato la paraetimologia che li vuole legati all’avarizia. Si tratta di un popolo che, staccatosi da altri popoli consimili dell’Asia centrale, migrò verso l’Europa, stanziandosi in particolare sulle rive balcaniche del Danubio, dove costituì un khanato che duro dal VI al XI secolo. Furono fra l’altro loro a incalzare i Longobardi, portandoli a trasferirsi in Italia, e in quel lungo periodo riuscirono ad accumulare grandi ricchezze, grazie ai tributi con cui l’Impero d’Oriente li teneva a bada, e ai ricavi delle loro scorrerie. Quando Carlo Magno mosse loro guerra li dissipò irreparabilmente, ed essi si sciolsero nelle altre popolazioni locali. Solo, Carlo Magno recuperò il tesoro che gli Àvari avevano accumulato dacché erano arrivati. Se lo portò ad Aquisgrana — e si dice siano serviti quindici carri, per trasportarlo. Carlo Magno però non fu avaro come gli Àvari: pare abbia l’speso tutto subito.

Parola pubblicata il 23 Luglio 2020