Indigere

in-dì-ge-re (io in-dì-go)

Significato Avere bisogno di qualcosa

Etimologia voce dotta recuperata dal latino indigere, derivato del verbo egère ‘aver bisogno’, col prefisso rafforzativo ind-.

  • «È una brava persona, ha lasciato molto agli indigenti.»

È vero, di questo verbo, nella lingua corrente, rimane solo il participio presente, l’indigente. Una parola che resta sulla cresta dell’onda, utile perché attua una tattica classica: sfrutta un registro estremamente elevato per dare dignità a una condizione minore.

In effetti, posto che ‘indigere’ significa ‘aver bisogno di qualcosa’, l’indigente non si distingue sostanzialmente dal bisognoso — ma bisogno è una parola nel suo complesso spiccia, perfino un po’ sporchetta, mentre indigere è una parola da altezze celesti, da empireo. Letteralmente.

La sua patente di nobiltà non ci racconta solo che si tratta di un verbo di antichità profonda, che in latino ha avuto usi vasti, che hanno abbracciato la vita quotidiana, la tattica militare e la speculazione filosofica; non ci mostra solo la sua formazione come rafforzativo (grazie al prefisso ind-) del verbo egère, ‘aver bisogno, volere’, di ancestrale ascendenza indoeuropea lungo una radice ricostruita come heges- dal senso di ‘mancare, necessitare’.

Su questo verbo, passato in italiano, non si potrà mai mettere una croce definitiva perché è salvato nel culmine di un’opera umana di cui la fama ancor nel mondo dura, e durerà quanto 'l mondo lontana.

Siamo alla fine — alla fine della Commedia. Dante si è specchiato in Dio, nel cui cerchio ci ha visto — noi che leggiamo, il nostro genere umano. Ma non ha capito proprio bene bene com’è che l’immagine si inscriva e collochi in quel cerchio. Vorrebbe vedere, capire meglio, ma non può. E allora, proprio qui, alla pietra angolare di tutto, si prende lo spazio di un parallelismo inatteso.

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova [...].

Come si sente Dante? Come lo studioso di geometria che si concentra profondamente (si affige, s’impunta) a misurare il cerchio — misurare, sottinteso, per trovarne la quadratura, per riuscire a costruire con riga e compasso un quadrato della stessa area — ma non ci riesce perché non riesce a trovare quel principio ond’elli indige, l’elemento che gli manca. Quale elemento gli manca?

La quadratura del cerchio è un antico problema di geometria, famosamente insolubile — in specie, perché il π è un numero trascendente, un particolare tipo di numero irrazionale. Se l’area del cerchio è πr² (raggio alla seconda per pi greco), la lunghezza del lato del quadrato con la stessa area ne è la radice quadrata, cioè raggio moltiplicato radice quadrata di pi greco. E la radice quadrata di pi greco, con stecca e compasso, non si costruisce.

Dante è indigente perché, nella sua limitatezza, manca della possibilità di costruirci un’immagine chiara di Dio. Così come il geomètra manca della possibilità di quadrare il cerchio. La trascendenza spirituale è significata attraverso un’intuizione della trascendenza matematica.

Magari oggi non diremo che la collega indige urgentemente di vacanze, o che diamo all’amico l’abbraccio che gli indige. Ci conviene un ‘abbisogna’, o qualche sinonimo. Continueremo solo a usare indigente per nominare in modo distinto uno stato di bisogno — ricorderemo l’aiuto che gente amica del paese prestò alla prozia indigente, a come la nonna ricorda la lenta uscita dall’indigenza. Ma il marchio alto dell’indigere resta, ed è bello saperlo decifrare: la parola più dignitosa che abbiamo per la povertà è voce del verbo che in chiusura di Commedia racconta la nostra povertà davanti alla trascendenza.

Parola pubblicata il 11 Giugno 2022