Intesa

Le parole e le cose

in-té-sa

Significato Accordo, specie segreto, e anche amoroso; collaborazione, coordinazione, affiatamento

Etimologia da intendere, voce dotta recuperata dal latino intèndere, derivato di tèndere ‘tendere’, col prefisso in- ‘dentro’.

  • «C'è una bella intesa, fra loro due.»

Ha un che di intimo e complice, questa parola, che traspare anche dai vocabolari nel segnalarne il tratto di riservatezza – se non di autentico segreto – rispetto al fratello ‘accordo’. Non a caso, un tempo ‘intesa’ era sinonimo di rapporto amoroso, e ancora oggi diciamo che due ‘se la intendono’ per riferirci ad una tresca. D’altra parte anche l’accordo, pur con quell’aria burocratica e fredda, etimologicamente è la sintonia dei cuori. Ma non c’è solo cuore, bensì anche ragione: l’intesa tra parti diverse, il venire a patti con l’altro, è necessità e pratica comune da che esiste una società organizzata: gli Stati stipulano intese tra loro, le parti sociali siglano l’intesa dopo mesi di discussioni serrate, e allenandosi insieme si raggiunge l’intesa – ossia la coordinazione, l’affiatamento – tra compagni di squadra. C’è ordine, armonia, razionalità nell’intesa; una razionalità tutta comunicativa, di esseri umani che a volte riescono a far prevalere la forza della ragione sulle ragioni della forza.

Eppure, innegabilmente la nostra cultura – confidando sempre meno nella ragione e nella comunicabilità – da tempo guarda all’intesa con occhio incredulo. I grandi scrittori del Novecento, come Pirandello, ci dicono che «le parole, per sé, sono vuote», quindi «abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto», e per i filosofi ‘postmoderni’ la ragione è un’istanza dispotica che, volendo dominare la natura, ha finito per asservire e alienare gli umani portandoli alla «trionfale sventura» emblematizzata da Auschwitz. Il consenso, perciò, diventa una iattura: nelle parole di Lyotard, «un valore desueto, e sospetto». Poi, a salvare il mondo dall’incupimento e dal pessimismo, arriva Jürgen Habermas.

Scherziamo, ma questo filosofo tedesco oggi novantaquattrenne, erede della ‘Scuola di Francoforte’, ha davvero voluto, in antitesi coi suoi maestri, riscattare la ragione illuministica, che per lui, nonostante le ‘trionfali sventure’ del secolo scorso, non è un progetto fallito bensì interrotto, da completare. A patto, però, che si esca dalla «filosofia del soggetto» alla base della razionalità strumentale, calcolante (che si rapporta alle cose come oggetti o strumenti per i propri scopi), abbracciando un diverso tipo di ragione: quella intersoggettiva, comunicativa, che tende all’intesa reciproca ed è incorporata nella lingua – o meglio, nella dimensione pragmatica del linguaggio.

In questo scatto di Wolfram Huke, Jürgen Habermas, con un bello sguardo d’intesa.

Come molti filosofi contemporanei, Habermas ritiene che ogni enunciato sia un atto linguistico, cioè che parlare sia sempre anche compiere un’azione. Ma ogni enunciato, secondo lui, oltre alla parte semantica e a quella performativa, contiene anche determinate «pretese di validità»: in particolare la verità (corrispondenza ai fatti), la veridicità (sincerità nell’argomentare) e la giustezza (correttezza, rispetto delle norme di un determinato contesto). Occorre che ognuna di queste pretese venga accettata dagli interlocutori affinché sia possibile l’intesa, che può quindi definirsi come riconoscimento intersoggettivo di pretese di validità sempre criticabili. Questo accordo è il cuore della razionalità implicita nell’agire linguistico, che caratterizza il «mondo della vita» (quello propriamente umano: cultura, identità, valori, rapporti interpersonali).

All’agire comunicativo – forma consensuale di interazione sociale che ha come scopo l’intesa – si contrappone l’agire strumentale tipico del «sistema», l’organizzazione economica e politica. L’ideale sarebbe, per Habermas, che i due campi restassero separati; senonché assistiamo da tempo ad una «colonizzazione» del mondo della vita da parte del sistema e dei suoi «mezzi di controllo» – il denaro e il potere –, con una «ridefinizione consumistica dei rapporti» (disintegrazione sociale, scomparsa delle forme tradizionali di solidarietà), un’applicazione cieca di logiche di mercato in ambito culturale e sociale, e una gestione verticistica in campo politico ed economico che genera apatia e passività, rendendo la democrazia meramente rappresentativa invece che partecipativa.

Oltre che a questa logica di sopraffazione, la razionalità comunicativa di Habermas vuol essere un antidoto all’impasse relativistica per cui ogni cultura è chiusa in valori e norme incommensurabili rispetto alle altre, e ognuno è prigioniero della bolla di pregiudizi in cui è cresciuto. L’intesa, infatti, è una convinzione razionale condivisa, che nasce dall’accettazione di regole universali da parte di «chiunque intraprenda seriamente il tentativo di partecipare ad un’argomentazione». Alla base, c’è una concezione consensuale della verità come esito del confronto razionale tra interlocutori – confronto razionale che, naturalmente, è una «situazione discorsiva ideale», caratterizzata dall’ «esclusione sistematica di ogni deformazione della comunicazione».

Sì, certo, è facile obiettare che nella vita reale le «deformazioni» sono la norma, e che non esistono «situazioni ideali». Un po’ meno facile, invece, proporre soluzioni più credibili di quella habermasiana – fondata sull’intesa interpersonale – per uscire dall’alternativa tra dogmatismo e anacronistiche concezioni metafisiche della verità da una parte, e soggettivismo, relativismo e irrazionalismo dall’altra.

Parola pubblicata il 24 Ottobre 2023

Le parole e le cose - con Salvatore Congiu

I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.