Irrito
ìr-ri-to
Significato Privo di valore legale, non compiuto secondo le forme previste dalla legge; privo di valore, vano, inutile, senza conseguenze
Etimologia dal latino ìrritus ‘non valido, inefficace’, da ratus ‘valido, confermato’, propriamente participio passato di reri ‘calcolare, stimare’, con prefisso negativo in-.
- «La sua è una promessa irrita, puoi considerare che non l'abbia nemmeno pronunciata.»
Parola pubblicata il 21 Gennaio 2025
Quindi non stiamo parlando della prima persona presente indicativo del verbo ‘irritare’. Quella che consideriamo qui è una parola ricercata e di grande finezza, che pare un po’ strana — ma è una stranezza dovuta all’inusualità: appartiene a una famiglia blasonata, e ha un significato di grande portata.
Partiamo da qui: il latino conosce il verbo reri, un verbone cardinale di dibattuta origine indoeuropea che è un calcolare, uno stimare, un credere, da cui originano molte parole. Ad esempio, di qui salta fuori nientemeno che la ‘ragione’ (ratio), ma anche il ‘rato’ (participio passato, col senso di ‘confermato’), il ‘ratificare’ (ratum facere, ‘rendere valido, confermare’) e la ‘rata’ (ratam partem, la parte calcolata).
Questa zona di concetto è particolarmente interessante; certo che il calcolo stia alla base della ragione è interessante, che fondi la rata è abbastanza piano, e diretto anche il nesso fra calcolo e stima; ma ci presenta anche una conseguenza fra ciò che si stima e ciò che è valido. È regolare, giusto, ben fatto e valido al di fuori di ciò che si stima, si calcola regolare, giusto, ben fatto e valido.
L’ìrrito è non rato, e perciò, soprattutto, è privo di valore legale. Stiamo parlando di categorie come invalidità e inefficacia, e questo è il regno del diritto; e l’irrito è invalido perché non confermato, perché non conforme (in un diritto come quello romano poi, che è tutto rito e formalità liturgica, figuriamoci). Vale la pena notare che etimologicamente col rito non c’entra, se non forse e molto molto alla lontana, secondo passaggi che qui non è il caso di inseguire: l’irrito non è semplicemente irrituale. Ad ogni modo, sentiamo un po’ l’effetto che fa usarlo.
Possiamo parlare di un testamento ìrrito perché scritto da una persona e firmato da un’altra, di un contratto irrito perché solo orale quando doveva essere messo per iscritto, di una legge che la corte dichiara irrita perché promulgata senza competenze.
Sentiamo una certa precisione, in quest’uso, e anche se è ricercato non ha un’aura paludata e ampollosa — anzi, col suo suono sdrucciolo ha un che di sbrigativo. Con queste premesse, nella lingua alta l’irrito riesce anche ad abbandonare le spiagge del diritto per qualificare in generale ciò che non ha valore, ciò che è vano.
Posso parlare delle speranze irrite espresse in un momento di circostanza, dei discorsi irriti sbrodolati davanti a un problema che richiede un’azione chiara, delle promesse irrite lanciate in campagna elettorale.
In quest’uso sentiamo tutto il peso di una invalidità che elimina radicalmente ogni conseguenza, sentiamo la completa vanità di qualcosa che non funziona, che non ha efficacia. Il profilo tecnico lo conserva tagliente, irrimediabile, ma senza magniloquenza.
È una risorsa non facile da spendere, perché richiede una decifrazione corretta — verso cui la prima impressione, da sé, non instrada. Ma se l’occasione ci permette di usarla, che impatto!