Ossibuchivoro

Parole d'autore

os-si-bu-chì-vo-ro

Significato Che si nutre di ossibuchi, designazione ironica dei lombardi e in particolare dei borghesi

Etimologia derivato di ossobuco (adattamento del milanese os büs, ‘osso bucato’) con l’aggiunta del suffisso -voro (‘che si nutre di’), tipico della terminologia zoologica. Neologismo coniato da Carlo Emilio Gadda in La cognizione del dolore (1963).

La bizzarria del linguaggio è il pilastro portante dei romanzi di Gadda, non solo dal punto di vista estetico ma anche tematico. L’accumulazione ridondante e circonvoluta, l’accozzaglia di registri e perfino di lingue diverse: tutto concorre a raffigurare un mondo caotico, pressoché impossibile da decifrare.

Ovvio che un autore così sia capace di inventarsi una decina di neologismi prima ancora di far colazione. ‘Ossibuchivoro’ è una delle sue creazioni più celebri, di solito intesa come sinonimo ironico di ‘lombardo’. L’ossobuco è infatti un piatto tipico di questa regione (in specie del milanese), dove è forse noto sin dal Medioevo.

Nulla di strano, del resto, che un piatto sia preso a simbolo di un’identità collettiva: accade da sempre, nel bene e nel male.

A volte è la comunità stessa a vedersi orgogliosamente rappresentata in un cibo tipico. Da qui uno dei lati buoni (in tutti i sensi) del campanilismo: il fatto che ogni città si senta in dovere di vantare una propria specialità culinaria. “Come si può governare un paese in cui ci sono 246 varietà di formaggio?” si chiedeva De Gaulle, e il concetto può applicarsi tanto alla Francia quanto all’Italia.

Altre volte invece le abitudini alimentari di un gruppo, viste dall’esterno, si traducono in una definizione dispregiativa, come ‘maccheroni’ (antico epiteto degli italiani all’estero) o ‘polentoni’. La cosa funziona particolarmente bene quando il cibo in questione appare a molti disgustoso, come nel caso dei ‘mangia-rane’ o ‘mangia-lumache’ (entrambi soprannomi dei francesi).

Anche ‘ossibuchivoro’ possiede una sfumatura spregiativa, anche se si presta soprattutto a usi scherzosi. In realtà oggi il termine ha perso un po’ di smalto, dato che l’ossobuco non si mangia più spesso come un tempo. Tuttavia questo piatto è ancora un elemento importante dell’identità lombarda; addirittura è stata fondata nel 2015 una “Confraternita dell’Ossobuco”, autrice dei 13 comandamenti atti a produrre l’ossobuco perfetto.

Va precisato, d’altro canto, che nell’uso originario di Gadda l’ironia dell’aggettivo si rivolge contro una categoria specifica di lombardi: quelli della ‘società bene’. Nella Cognizione del dolore, descrivendo un gruppo di borghesi in attitudine postprandiale, l’autore si diverte a strappare loro la maschera di raffinata rispettabilità, svelando che in fondo sono soltanto macchine per mangiare:

E così rimanevano: il gomito appoggiato sul tavolino, la sigaretta fra medio e indice […] mentre che lo stomaco […] andava dietro come un disperato ameboide a mantrugiare e a peptonizzare l’ossobuco. La peristalsi veniva via con un andazzo trionfale, da parer […] la marcia trionfale dell’Aida o il toreador della Carmen. Così rimanevano. […] In piena valorizzazione dei loro polsini, e dei loro gemelli da polso. E della loro faccia di manichini ossibuchivori.

La cosa curiosa è che l’ossobuco, come gran parte dei piatti tipici, è una pietanza povera. È tratto infatti dalla gamba del vitello: non esattamente un taglio di prima scelta. Dall’Ottocento in avanti però è diventato il protagonista dei pranzi domenicali borghesi, estendendosi così a simbolo della classe benestante; un destino simile a quello di molte altre pietanze oggi ricercate (come il caviale, un tempo cibo da pescatori).

Ne fa fede la famosa barzelletta dei due contadini che, essendosi concessi per la prima volta il lusso di una cena al ristorante, ordinarono la portata dal nome più ricercato del menu… e si videro portare la solita zuppa di fagioli.

Parola pubblicata il 21 Giugno 2021

Parole d'autore - con Lucia Masetti

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