Ras
ràs
Significato Nell’Impero d’Etiopia, titolo nobiliare di dignitari inferiori solo al negus; autorità locale che spadroneggia in modo arbitrario e dispotico, e in specie capo della malavita
Etimologia dall’amarico ras ‘capo’.
- «È il ras che controlla tutti i traffici illegali della città.»
Parola pubblicata il 30 Gennaio 2025
Difficilmente le figure di potere di società straniere, specie lontane, sono viste in maniera lusinghiera. Abbiamo l’enigmatica impenetrabilità del mandarino, la ricchezza e l’influenza che il boiardo accumula come amministratore pubblico, la forza arbitraria e carismatica del cacicco locale, le sovranità opulente e misteriose dei satrapi, e via dicendo. Questo non accade perché i nostri duchi siano mai stati più illuminati, anzi. Avviene per una buona dose di malizia provinciale. Il caso del ras però è particolarmente interessante, perché è una figura a cui in italiano si ricorre spesso, specie in ambito giornalistico, e che squaderna una dinamica complessa.
I ras furono gli omologhi dei duchi nell’Impero d’Etiopia. In amarico (lingua del ceppo semitico) significa ‘capo’ — forse sentiamo la somiglianza con il ra'īs arabo, che ha tanto echeggiato nel Mediterraneo, e che ha lo stesso significato, con la più variegate specificazioni (dal direttore della tonnara al promontorio geografico). Siamo quindi davanti a dignitari che governano ampie province e sono secondi solo al negus, l’imperatore — non proprio dei capetti capricciosi.
Ora, come sappiamo l’Etiopia fu oggetto delle triste mire coloniali dell’Italia, e fra le altre tante cose la propaganda fascista s’impegnò a diffamare le gerarchie etiopi — fra cui i ras, rappresentati volentieri come despoti biechi, dal cui giogo la popolazione meritava d’esser liberata (gasp).
Ora, nell’italiano ancora corrente per ‘ras’ s’intende l’autorità locale che spadroneggia come despota a proprio arbitrio — ma non ci si arriva col solo contributo della propaganda fascista.
La diffamazione sistematica e pretestuosa della figura del ras suggerì alla critica antifascista di sfilare questa parola alla retorica mussoliniana per descrivere gli stessi gerarchetti del regime. In effetti il modo in cui questa retorica dipingeva i ras rappresentava bene, piuttosto, le attitudini dei ducetti di provincia, e il ribaltamento ha avuto la sua tagliente ironia e il suo successo; ma sempre a spese della nomea di un’aristocrazia distante, che non ci aveva niente a che fare.
Con queste premesse ci spieghiamo perché il ras prenda il profilo che ha, addirittura prestandosi a indicare un capo della malavita locale. I giornali, sempre in cerca di suggestioni insolite e anche in virtù della brevità del nome, amano parlare dei ras delle piazze, degli arresti dei parenti del ras, dei ras che rispondono al tal grande capo. E magari è anche un uso con la sua incisività, ma è un uso fuori tempo: traveste da duca africano d’antan — che non è un santo, ma nemmeno un tiranno o un capataz — quello che in realtà è un piccolo gerarca fascista, presuntuoso, strepitoso e pericoloso. L’immagine icastica che si ricerca, lasciando perdere l’esotismo provinciale, è questa. Ducetti di famiglie mafiose, gerarchetti dello spaccio sarebbero più a fuoco, lasciando perdere le trasfigurazioni e i giudizi circa ruoli di cui sappiamo poco.