Redamare
re-da-mà-re (io re-dà-mo)
Significato Amare chi ci ama, corrispondere l’amore
Etimologia voce dotta recuperata dal latino redamare, derivato di amare col prefisso re(d)-, che indica una ripetizione al contrario.
- «Ama ed è redamata con un trasporto profondissimo.»
Parola pubblicata il 15 Aprile 2023
Questo è un fatto curioso: parliamo continuamente di ‘amare’, ma il verbo che significa la reciprocità, la corrispondenza di questo sentire, ‘riamare’, è relativamente raro — più raro di quanto siano di solito i derivati di questo genere.
In effetti nel riamare possiamo trovare qualcosa che non fila. Fra la ‘i’ e la ‘a’ c’è uno iato, un intoppo di due vocali che non si uniscono (avviene nelle composizioni, scriveva Luca Serianni nella sua Grammatica, «purché si avverta il rapporto tra prefisso e base»): non che questo sia un problema, di solito — non si contano gli iati che pronunciamo normalmente, anche costituiti proprio con il medesimo prefisso ‘ri-’. E però qui forse si sentirebbe un’esigenza di immediatezza maggiore di quella imposta dai tempi d’avvicendamento di due vocali — questa minuscola difficoltà sembra distonica. Ma può anche darsi che il problema sia un altro, come considereremo.
Il redamare è un’alternativa al riamare, di cui condivide i significati. Si tratta di un prestito latino, che non richiede adattamento — e qui niente iati, anzi: l’uso del prefisso red-, che aggiunge una -d- eufonica al re- (la particella che squaderna la reciprocità), fa scorrere la parola dritta. Dritta e non liscia: è vibrante, varia e veloce, con un profilo da rimbalzo di torrente. Si prende spazio, il redamare, come se fosse un modo per tenere in considerazione dovuta la sua stessa importanza.
Problema: non ha mai avuto un gran successo, e se il riamare stesso oggi se la passa male, il redamare si conserva essenzialmente nelle teche dei dizionari. E però è una grande opportunità.
Uno dei problemi di questi verbi, che insistono su questa corresponsione d’amore, è a livello sostanziale l’incertezza che abbiamo nel nominarla. Non è tanto, o solo, un problema di quale parola scegliere di usare, quanto proprio di riconoscimento di questo fatto del mondo — che ha un’armonia ora incerta ora spaventosa. Parlare di chi amiamo o di chi ci ama ha un gran peso, ma sono considerazioni che mantengono una certa sobrietà da verso singolo.
Il redamare, come anche il riamare, ci proietta in una pazza realtà di echi d’amore in cui ci muoviamo come pipistrelli. Sono parole che richiedono una certa sfacciataggine, nel considerare questo fatto a stento pronunciabile dell’amare chi ci ama, sfacciataggine o riflessione (entrambe percorribilissime, beninteso). Dopotutto il redamare latino nasce per ricalcare un verbo greco di respiro filosofico, antiphilêin: c’è sotteso un intento di precisione rappresentativa sottile ma del tutto accessibile.
Magari non inizieremo a usare il verbo ‘redamare’ comunque, forse sperimenteremo con qualche sicurezza in più il ‘riamare’; in ogni caso rilevano, perché sono tasselli del mosaico linguistico dell’amare, termine a cui affidiamo una parte cardinale delle nostre interazioni col mondo.
A questo punto però c’è chi si domanderà da dove venga la parola antecedente, ‘amare’. Resistentissima al cambiamento, troviamo l’amare uguale in latino — ma per sapere che cos’era e com’era prima si devono fare delle ipotesi, e ce ne sono diverse. Fra queste, c’è chi vuole che la radice protoitalica ama- risalga al protoindoeuropeo, con dei significati originari di ‘prendere, tenere’, che vengono declinati nelle lingue di famiglia diversamente, fino all’attaccare all’afferrare e al giurare; c’è chi invece lo vuole connesso nientemeno che con ‘mamma’, termine della lingua infantile di ascendenza immemorabile.