Volare
Scorci letterari
vo-là-re (io vó-lo)
Significato Sostenersi e muoversi nell’aria; muoversi o trascorrere rapidamente
Etimologia dal latino volare.
Parola pubblicata il 13 Marzo 2017
Scorci letterari - con Lucia Masetti
Con Lucia Masetti, dottoranda in letteratura italiana, uno scorcio letterario sulla parola del giorno.
Delle parole più semplici e note vanno compresi i caratteri, vanno comprese le suggestioni millenarie che sono alla base dei loro usi consueti. Altrimenti resteranno sempre delle coinquiline estranee.
Come facilmente si può immaginare, il volare latino nasce per descrivere il moto nell’aria degli uccelli. Ed è un moto articolato, di qualcuno che si libra nell’aria sostenendovisi e trascorrendola con rapidità. Così viene esteso a ciò che si muove al di sopra della terra, per propria virtù, sostenuto dall’aria o in aria lanciato con forza: vola sì l’airone, ma vola l’aereo, e volano l’aquilone e la freccia. E similmente volano parole grosse (quasi fossero pietre), vola la fantasia alata, volano pugni sferrati con rapidità. Perché già in latino il volare diventa uno spostarsi, un correre velocemente - un uso figurato immediato e intuitivo. E allora vola l’automobile lanciata sulla pista, vola il tempo quando ci si diverte, vola la notizia… un po’ originale.
Questa parola, con le sue variegate diramazioni, ci tramanda tutta la meraviglia di un’osservazione naturale stupita, che tradotta in un termine viene impiegata per dare forma al pensiero.
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(Dante, Purgatorio XXV, vv. 10-15)
E quale il cicognin che leva l’ala
Per voglia di volare e non s’attenta
D’abbandonar lo nido, e giù la cala
Tale ero io con voglia accesa e spenta
di dimandar, venendo infino a l’atto
che fa colui ch’a dicer s’argomenta.
Ecco un classico esempio di studente timido: Dante vorrebbe porre una domanda a Virgilio, ma teme di fare la figura dello stupido. Quindi apre la bocca come preparandosi a parlare («a dicer s’argomenta»), ma la richiude senza aver detto nulla. È come un cicognino che vorrebbe volare, ma non osa abbandonare il nido.
Queste terzine, dunque, ci mostrano una caratteristica chiave di Dante, la propensione alla domanda. E significativamente questa è associata al mondo infantile (il cicognino). Nella domanda, infatti, gli opposti si incontrano: da un lato gli ingenui “perché” dei bambini, dall’altro la saggezza dell’uomo maturo che “sa di non sapere”. Non a caso Dante, nel Convivio, pone alla base della cultura proprio la sete di conoscenza: il sapiente, quindi, diventa tale solo recuperando la curiosità umile e stupita del bambino.
C’è poi un altro aspetto interessante: Dante era un “toscanaccio” verace, e di certo nessuno dei suoi conoscenti l’avrebbe paragonato a un «cicognino». Tuttavia, le apparenze ingannano. Quante volte invidiamo l’intelligenza o l’intraprendenza di una persona, per poi scoprire che dietro si nasconde una fragilità insospettata, e in fondo commovente. In tutti, infatti, si annida il timore di non essere all’altezza, di non valere abbastanza; che è, in fondo, la paura di non essere amati.
Eppure, dietro a quella fragilità, trapela spesso un prezioso potenziale, che aspetta solo di “spiccare il volo”. In fondo al cuore, infatti, palpita la «voglia» di amare e conoscere: il desiderio di sentire il vento scorrere sotto le ali, scoprendo così lo scopo per cui si è fatti.
Il cicognino, in fondo, è l’immagine dell’anima «vagheggiata» da Dio, con divertita tenerezza, nel canto XVI. E anche noi dovremmo imparare a guardarci con la stessa tenerezza, come fa Dante. Così forse sentiremmo spuntare un sorriso di fronte a questa creaturina buffa e un po’ tonta, ma incredibilmente preziosa.