SignificatoPersonaggio dell’Iliade; persona codarda e insolente
Etimologia dal nome di Tersite, voce dotta recuperata dal latino Thersìte, che è dal greco Thersítes, propriamente ‘il baldanzoso’.
Quando il nome di un personaggio diventa un’antonomasia, le sue qualità preminenti vengono cristallizzate in un tipo, in una sorta caricatura — e difficilmente sono qualità isolate, quanto piuttosto un cocktail di qualità. Può però accadere che il giudizio sul personaggio, nei secoli, cambi, e che quindi i significati dell’antonomasia restino dissonanti.
Siamo all’inizio del II libro, e Achille è furioso. La cattura di Criseide, figlia del sacerdote di Apollo, ha scatenato l’ira del dio contro i Greci, ma la ragazza è prigioniera di Agamennone, che non la vuole liberare. L’egoismo dispotico del re pretende, infine, come contropartita per la sua liberazione, Briseide, la favorita di Achille. Così egli decide di ritirarsi dai combattimenti, e anzi chiede a sua madre Teti, divinità marina, di perorare vendetta presso Zeus, contro Agamennone e a gloria sua. Ma il padre degli dèi tentenna: se decide di intervenire, deve farlo con somma discrezione.
Manda un sogno ingannevole ad Agamennone, profetizzandogli che il giorno della caduta di Troia è giunto: che lanci l’assalto. Al mattino il re, compiaciuto, condivide il sogno con il consiglio degli anziani, e tutti ne sono entusiasti. Per saggiare la tempra dei suoi soldati, però, decide di convocare un’adunanza dando la notizia opposta. A sentire che si doveva fuggire, però, i soldati non rispondono con l’indomita tenacia sperata da Agamennone — no, Troia dalle larghe strade sarà nostra! — invece si catapultano tutti alle navi, smaniosi di tornare a casa.
Interviene precipitosamente Atena, che istruisce Ulisse su come fare a riprendere le redini della situazione; egli, brandendo lo scettro di Agamennone, riprende uno a uno i notabili degli Achei, e così riesce ad arginare il fuggi fuggi. Le acque si calmano con grande delusione da parte di tutti, ma c’è ancora qualcuno che continua a rumoreggiare: è Tersite.
Non c’è un greco più brutto di lui. Zoppo, guercio, gobbo, con spalle curve, la testa a pera e con pochi capelli radi sul cucuzzolo. Naturalmente questo, secondo il metro etico ed estetico degli antichi Greci, equivale a dire che è pure un fetente, cloaca di vizio, e non ci stupisce sentire che abbia una lingua sciolta e villana. Si permette di insultare Agamennone, domandando con parole brute se non gli bastano i suoi privilegi, e dicendo che gli è andata bene che Achille è un tipo paziente, e ribadendo che dovrebbero lasciarlo lì da solo a digerire il suo oro e andarsene. Ulisse risponde all’insulto picchiandolo forte con lo scettro di Agamennone — che essendo opera di Efesto si presta tanto alla funzione simbolica quanto a quella bruta, a quanto pare. Lasceremo lì Tersite, sanguinante e in lacrime fra le risate.
Sui dizionari leggiamo quindi che un tersite è una persona insolente e codarda. Sarà un tersite il socio che vuole abbandonare l’investimento sulla base di maldicenze e allusioni, tersite l’accademica che evita il confronto pubblico con insinuazioni oltraggiose, tersite la politica che sobilla con diffamazioni subito negate. Sembra esserci della baldanza, nel tersite (in effetti ‘baldanzoso’ è il suo significato etimologico), ma è piuttosto una sfrontatezza vile, quella di chi offende per coprire la ritirata. Questo tipo esiste e ci è noto, ed è interessante avere una parola per evocarlo. E però il richiamo a Tersite non funziona bene.
Un po’ perché non è un riferimento così spendibile — in realtà è sempre stato decisamente elitario. Ma soprattutto non ci fa più ridere né sprezziamo più chi, per ultimo, solo e ancora indomito, e accidentalmente bruttacchiolo, si fa rappresentante della plebaglia mandata a morire per la ricchezza, l’onore e il prestigio di pochi oppressori guerrafondai, e vedere un re che lo mena con uno scettro divino fa schifo.
Quando il nome di un personaggio diventa un’antonomasia, le sue qualità preminenti vengono cristallizzate in un tipo, in una sorta caricatura — e difficilmente sono qualità isolate, quanto piuttosto un cocktail di qualità. Può però accadere che il giudizio sul personaggio, nei secoli, cambi, e che quindi i significati dell’antonomasia restino dissonanti.
Siamo all’inizio del II libro, e Achille è furioso. La cattura di Criseide, figlia del sacerdote di Apollo, ha scatenato l’ira del dio contro i Greci, ma la ragazza è prigioniera di Agamennone, che non la vuole liberare. L’egoismo dispotico del re pretende, infine, come contropartita per la sua liberazione, Briseide, la favorita di Achille. Così egli decide di ritirarsi dai combattimenti, e anzi chiede a sua madre Teti, divinità marina, di perorare vendetta presso Zeus, contro Agamennone e a gloria sua. Ma il padre degli dèi tentenna: se decide di intervenire, deve farlo con somma discrezione.
Manda un sogno ingannevole ad Agamennone, profetizzandogli che il giorno della caduta di Troia è giunto: che lanci l’assalto. Al mattino il re, compiaciuto, condivide il sogno con il consiglio degli anziani, e tutti ne sono entusiasti. Per saggiare la tempra dei suoi soldati, però, decide di convocare un’adunanza dando la notizia opposta. A sentire che si doveva fuggire, però, i soldati non rispondono con l’indomita tenacia sperata da Agamennone — no, Troia dalle larghe strade sarà nostra! — invece si catapultano tutti alle navi, smaniosi di tornare a casa.
Interviene precipitosamente Atena, che istruisce Ulisse su come fare a riprendere le redini della situazione; egli, brandendo lo scettro di Agamennone, riprende uno a uno i notabili degli Achei, e così riesce ad arginare il fuggi fuggi. Le acque si calmano con grande delusione da parte di tutti, ma c’è ancora qualcuno che continua a rumoreggiare: è Tersite.
Non c’è un greco più brutto di lui. Zoppo, guercio, gobbo, con spalle curve, la testa a pera e con pochi capelli radi sul cucuzzolo. Naturalmente questo, secondo il metro etico ed estetico degli antichi Greci, equivale a dire che è pure un fetente, cloaca di vizio, e non ci stupisce sentire che abbia una lingua sciolta e villana. Si permette di insultare Agamennone, domandando con parole brute se non gli bastano i suoi privilegi, e dicendo che gli è andata bene che Achille è un tipo paziente, e ribadendo che dovrebbero lasciarlo lì da solo a digerire il suo oro e andarsene. Ulisse risponde all’insulto picchiandolo forte con lo scettro di Agamennone — che essendo opera di Efesto si presta tanto alla funzione simbolica quanto a quella bruta, a quanto pare. Lasceremo lì Tersite, sanguinante e in lacrime fra le risate.
Sui dizionari leggiamo quindi che un tersite è una persona insolente e codarda. Sarà un tersite il socio che vuole abbandonare l’investimento sulla base di maldicenze e allusioni, tersite l’accademica che evita il confronto pubblico con insinuazioni oltraggiose, tersite la politica che sobilla con diffamazioni subito negate. Sembra esserci della baldanza, nel tersite (in effetti ‘baldanzoso’ è il suo significato etimologico), ma è piuttosto una sfrontatezza vile, quella di chi offende per coprire la ritirata. Questo tipo esiste e ci è noto, ed è interessante avere una parola per evocarlo. E però il richiamo a Tersite non funziona bene.
Un po’ perché non è un riferimento così spendibile — in realtà è sempre stato decisamente elitario. Ma soprattutto non ci fa più ridere né sprezziamo più chi, per ultimo, solo e ancora indomito, e accidentalmente bruttacchiolo, si fa rappresentante della plebaglia mandata a morire per la ricchezza, l’onore e il prestigio di pochi oppressori guerrafondai, e vedere un re che lo mena con uno scettro divino fa schifo.