Calice
Le parole del vino
cà-li-ce
Significato 1) Involucro del fiore. 2) Tipo di bicchiere che si affusola verso il basso, spesso in uno stelo, con un piede rotondo
Etimologia 1) voce dotta recuperata dal latino calyx ‘involucro, guscio’, dal greco kályx ‘involucro, boccio’. 2) voce dotta recuperata dal latino calix ‘tazza, coppa’.
- «Che hai nel calice?»
Parola pubblicata il 28 Giugno 2024
Le parole del vino - in collaborazione con la tenuta vinicola Santa Margherita
Alla scoperta di radici ancestrali, significati sorprendenti e accezioni à la page, stappiamo le parole del vino che ci arrivano da ogni parte. Questo ciclo è sostenuto dalla tenuta vinicola Santa Margherita.
Che il calice sia un bicchiere da vino è scritto nella sua storia. Non nella sua etimologia, che è un labirinto pieno di specchi e pozzi, ma proprio nel suo uso, nel veicolo che l’ha preservata e condotta a noi.
Un drappello di parole alte della latinità e della grecità ha avuto in sorte una strada molto comoda per perpetuarsi nelle lingue popolari successive: essere incluse nelle Sacre Scritture. Per lunghissimi secoli non c’è stata persona, dall’ultima del popolo a quella con la testa più coronata, che non vi sia stata esposta, e specie alla formula eucaristica. Quanta gente, e per quante volte ha udito «et accipiens calicem gratias egit et dedit illis dicens bibite ex hoc omnes / hic est enim sanguis meus [...]», Gesù ‘prendendo il calice ringraziò’? L’associazione fra calice e vino (e in generale fra calice e occasione aulica) può contare su una bella briscola. E però…
Non dobbiamo pensare che il calice sia sempre stato quello che intendiamo noi, bicchiere di vetro che si affusola in uno stelo con piede rotondo. Nell’antichità la nostra tassonomia di coppe, tazze e bicchieri non si rispecchia in maniera troppo distinta, senza contare che calici così tanto raffinati come sono quelli che compriamo alla dozzina e che fracassiamo serenamente durante la cena erano praticamente inconcepibili anche per gli imperatori. I materiali erano diversi, prevalevano terrecotte o eventualmente metalli anche preziosissimi, e il vetro era una sciccheria — ma possiamo pensare che anche il veicolo materiale del concetto di calice sia stata la stessa liturgia cristiana, attraverso cui si è fissato un certo modello. Insomma, la forma particolare e il concetto di bicchiere elevato sono due facce di una sola medaglia.
Ma il calice non è anche l’involucro verde del fiore? C’entra? La forma è molto simile, dopotutto.
La risposta non può che essere confusa. Il latino calix che significa tazza, coppa, è forse parente ma certo non figlio del greco kýlix, che ha lo stesso significato. Queste due parole non sono facilmente riconducibili a una radice indoeuropea, e si pensa che possano derivare parallelamente da una voce di una lingua del sostrato, precedente alla diffusione delle lingue indoeuropee come greco e latino. Invece il greco kályx, che significa ‘involucro, boccio’, arriva in latino come prestito, calyx — peraltro con una grande varietà di significati pratici, da gusci a scorze a scaglie a involucri. Ma sopravvive solo il significato botanico che dicevamo, la coppa dei sepali che racchiude il fiore.
Se kályx e kýlix fossero parenti, il nesso sarebbe chiaro: dopotutto è normale avere dei sentori floreali nel calice, e questo potrebbe avere un senso sia botanicamente sia enologicamente. Ma non ci mettiamo la mano sul fuoco.
Così ci resta l’eredità ambivalente e vivissima del calice-bicchiere propriamente detto, da tenere per lo stelo con due o tre dita, o per la base, che con varie forme e capacità si presta a vini differenti, che però è anche un bicchiere elevato e figurato (come quando beviamo l’amaro calice, invece di ingoiare il rospo) — involucro di fluidi alti, eco dell’involucro del fiore.