Enoteismo

e-no-te-ì-smo

Significato L’adorare una singola divinità senza escludere l’esistenza di altre

Etimologia dal tedesco Henotheismus, composto del greco hêis (henós al genitivo) ‘uno’ e theós ‘dio’.

  • «Quello fu un frangente di enoteismo, in cui la divinità solare eclissò tutte le altre.»

D’acchito, con questo ‘-teismo’ già si annusa che si parla di religione, ma non si tratta del culto di Bacco o Dioniso a cui lo zio si professa devoto ogni volta che esce allegro da una cantina; questo ‘eno’ non è quello che riconosciamo nell’enoteca, nell’enologico, nell’enogastronomico, derivato dal greco ôinos, che come è prevedibile vuol dire ‘vino’. Quello che incontriamo nell’enoteismo è un ‘eno’ completamente isolato, elemento che non compare nella composizione di altre parole, e che però ha un’ascendenza (sempre greca) molto semplice: heîs, henós, cioè ‘uno’.

Ma non abbiamo già una parola che mette insieme elementi del genere? Il mono-teismo, che indica le religioni fondate sull’esistenza di un solo dio, come si colloca rispetto all’enoteismo, visto che ‘mono’ ha un significato analogo?

Per chiarirci la situazione, facciamo una capatina nell’Inghilterra della seconda metà dell’Ottocento, per la precisione a Oxford, dove un professore tedesco, Max Müller, sta gettando le basi per una nuova disciplina, la scienza delle religioni. Fu un grande orientalista — ad esempio curò un’edizione monumentale di cinquanta volumi coi testi sacri dell’oriente, traducendo personalmente alcuni dei testi vedici su cui si basano le religioni hindu — ma si impegnò anche nella descrizione e comparazione dei fenomeni religiosi.

Come possiamo osservare nella nostra esperienza personale, la nostra cultura è esposta soprattutto a due modelli di religione, quello politeista (che frequentiamo attraverso i classici dell’antichità, in una prospettiva che ancora permea anche un’ampia parte dei nostri usi linguistici) e quello monoteista, proprio delle religioni abramitiche, dominante da lunghissimo tempo. Ma le religioni non si esauriscono in una dicotomia una divinità / molte divinità: c’è uno spettro più ampio.

L’enoteismo in particolare ci racconta l’atteggiamento religioso di chi adora una singola divinità senza però escludere l’esistenza di altre. Il monoteismo è quello di chi adora una divinità unica, l’enotesimo di chi ne adora una: è così che si può interpretare la differenza fra heîs, più pianamente un numerale, e mónos, che descrive piuttosto il ‘solo’.

Müller ha coniato questo termine avendo in mente i Veda, testi sacri delle religioni hindu: qui, a partire da una compagine di divinità proverbialmente vasta, è storicamente ricorrente che ne sia scelta una singola come superiore e fulcro dell’adorazione — senza che questo implichi uno sradicamento delle altre. Ma c’è chi ricostruisce come enoteista anche l’ambiente religioso mediorientale che ha dato vita all’ebraismo — una situazione in cui le divinità di un pantheon convivono, ma popolazioni diverse ne maturano una preferita.

L’enoteismo è spesso considerato come una fase di passaggio fra politeismo e monoteismo, un momento in cui progressivamente il sacro immanente delle molte divinità, che sono forma del mondo, viene sussunto nel santo singolare e trascendente del dio unico.

Senza dubbio è un termine tecnico, specifico, che si presta anche a letture differenti di difficoltà non banale, e ad essere considerato con diverse estensioni: ad esempio si può distinguere dall’enoteismo la monolatria, letteralmente ‘adorazione unica’, come fase in cui l’adorazione della singola divinità non è preferita ma esclusiva, per quanto non si neghi ancora l’esistenza delle altre.

Ma le sue suggestioni tornano buone anche a chi come noi non naviga quotidianamente nella scienza delle religioni: ad esempio possiamo individuare come forma di enoteismo quello della prozia, che si interfacciava continuamente con santa Zita, trattandola — senza troppe premure d’ortodossia — come quella che davvero teneva le redini, lassù.

Parola pubblicata il 29 Settembre 2022