Perdono
Alessandro Manzoni, le parole
per-dó-no
Significato Remissione di una colpa e del castigo; scusa
Etimologia dal latino medievale perdonare, per il classico condonare ‘regalare, rimettere’.
- «Chiedo perdono per il ritardo.»
Parola pubblicata il 27 Maggio 2023
Alessandro Manzoni, le parole - con Lucia Masetti
Il 22 maggio 2023 ricorrono i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, celeberrimo, odiosamato gigante della nostra letteratura. L’impatto della sua opera sulla lingua italiana ha un rilievo con pochi paragoni: lo raccontiamo in sette parole — un dizionario minimo manzoniano, un piccolo safari nei 'Promessi sposi'.
In italiano il condonare ha preso un’altra via, una via giuridica, burocratica, catastale; ma il condonare del latino classico non era così. Dentro c’era ben evidente il riferimento al donare, e con quel prefisso con- raccontava una quantità di situazioni in cui questo atto di si declinava — dal regalare al rimettere un debito, dal consacrare all’assegnare.
Questo è un tipo di evoluzione estremamente interessante: il cambio di prefisso. Nel latino medievale nasce il verbo perdonare sostituendo il prefisso del vecchio condonare. Quel prefisso per- ci può confondere, perché di solito lo intendiamo come un ‘attraverso’, mentre in alcune formazioni ci offre il senso di un ‘completamente’. Anche se questo ‘donare del tutto’ ha un senso di un’importanza promettente, all’inizio non assomiglia al nostro perdonare, resta più un ‘concedere’ (traslando in italiano, come re ti potevo perdonare un beneficio, ad esempio). Ma il concetto di ‘concedere’ confina per lungo tratto con quello di ‘indulgere’: quando mi concedi che non è stata tutta colpa mia, mostri una parte di clemenza, indulgenza.
Quando il perdonare approda nel volgare italiano, la sua trasformazione è già avvenuta. Una trasformazione che lo porta in una dimensione esclusivamente morale, svincolata da concessioni materiali, e a un significato eccezionalmente complicato, e senza pari. Ma curiosamente, senza allontanarsi molto dalla prima radice.
Perdonare è assolvere? Si può perdonare anche chi ha acclaratamente commesso. Perdonare è dimenticare? Posso perdonare e conservare minuziosa memoria. Alla fine, tutta la maestà di quel ‘donare completamente’, che forse vorremmo immaginare come intimo regalo di sé nella cancellazione della colpa, riprende un profilo... giuridico, di remissione. Nella cancelleria del cuore, in una maniera che sembra davvero burocratica, si cancella non un fatto, ma il fatto che ci resti attaccato, la conseguenza che ha di norma — rabbia, attribuzione di colpa, odio, giudizio, richiesta di giustizia. C’è una curiosa maestà e un esito misterioso (perfino un po’ scandaloso), nel modo in cui l’indulto del perdono libera chi lo concede.
È il testimonial perfetto, padre Cristoforo: reclamizza il perdono in modo martellante, addirittura lo personifica. E, come sempre nelle pubblicità, fa sembrare il tutto molto semplice da fare. Poi ci provi tu e finisci come Renzo, che nel solo capitolo XI ha “ammazzato in cuor suo don Rodrigo, e risuscitatolo, almeno venti volte” (per questo Cristoforo deve precisare che il vero perdono è quello che avviene una volta per tutte, altrimenti non vale).
Solo nel finale il matricolato cappuccino rivelerà il suo segreto, e cioè che il perdono non è qualcosa che si fa. È un “sentimento”, ossia la naturale conseguenza di un mutamento interiore, di uno sguardo diverso. Anzitutto su di sé, giacché può perdonare solo chi desidera essere perdonato. Subire un torto, infatti, non rende innocenti; spesso anzi approfondisce le ombre, ferisce l’anima con “sogni di sangue” (cap. II). Padre Cristoforo, l’assassino, lo sa bene: l’odio è un veleno che intossica chi ne fa uso, inquinando ogni possibile felicità.
Ma soprattutto il perdono nasce da uno sguardo diverso sull’altro. Lo stesso che padre Cristoforo ha avuto, a posteriori, per l’uomo che ha ucciso, lo stesso che Lucia adotta istintivamente verso l’Innominato: quello che vede nell’altro non un mero avversario, ma un uomo. Con la sua fragilità, la sua sofferenza, e insieme con il bene che, nonostante tutto, porta in sé. In un certo senso perdonare è prendere a prestito lo sguardo di Dio, che ha plasmato le sue creature fin da quand’erano in grembo e che trema di speranza per ognuna di loro.
Non è, questo, un cambiamento che ci si possa imporre, come Renzo sa fin troppo bene: occorre chiederlo, desiderarlo, ma anche dar modo al tempo (alla Grazia) di lavorarci. Alla fine il perdono affiorerà quasi di soppiatto, da profondità che l’intelligenza non può sondare.
E tuttavia, paradossalmente, è anche l’atto più libero che si possa compiere. Renzo, impotente contro il sopruso, può ancora l’essenziale, come nota padre Cristoforo. Può accondiscendere al male, oppure può, con un colpo di mano, liberare tutti. Salvare se stesso dalla prigione dell’odio, salvare don Rodrigo dall’essere inchiodato al suo ruolo di “cattivo”, definito solo dal male che ha fatto.
E salvare la storia. Perché il male intrappola anche il tempo, bloccandolo in una catena di vendette o in lamento rancoroso; è il perdono che rimette in moto gli ingranaggi del romanzo (e della vita), facendolo procedere in una direzione nuova… verso il suo lieto fine.