Serafico

Parole semitiche

se-rà-fi-co

Significato Proprio dei serafini; che è pervaso da una profonda serenità e beatitudine

Etimologia attraverso il latino ecclesiastico seraphicus derivante dal latino cristiano seraphim serafino, l’angelo più in alto nella gerarchia angelica; questa parola fu mutuata dal greco al quale è giunta dall’ebraico śĕrāfīm, propriamente, ‘gli ardenti’ – derivato del verbo sāraf che significa ‘ardere, bruciare’.

Una delle locuzioni più usate con questa parola è il celeberrimo ‘sorriso serafico’. Ma che sorriso è un ‘sorriso serafico’? Di certo non è il largo stendersi delle labbra in una gioia improvvisa e travolgente, e nemmeno il sorriso commosso di un genitore al primo giorno di scuola della prole.

È un sorriso beato, sereno, procurato da una calma letizia che è propria dell’ordine angelico più alto, quello più vicino a Dio. È angelica, appunto, non umana. Non esiste, infatti, gioia umana che non possa essere spezzata, purtroppo. Ecco allora che, forse, il sorriso serafico assomiglia ad una traccia, una vaga eco, un’ombra d’angelo che sfiora il volto di qualcuno il cui cuore ha la fortuna di serbare serenamente una calda e luminosa briciola di letizia.

Solo agli angeli, ahinoi, è concesso uno stato di beatitudine tale da non poter essere intaccato. E i serafini sono degli angeli ‘di alto rango’, quelli che, secondo il profeta Isaia, hanno ben sei ali! Nella tradizione ebraica, la loro posizione gerarchica sembra variare: il filosofo Maimonide, nel Mishneh Torah, li pone al quinto posto, mentre nello Zohar, importante testo della mistica cabalistica, si trovano al terzo.

L’angelologia cristiana, invece, che si basa sul testo De coelesti hierarchia, scritto nel V secolo da un autore individuato come lo Pseudo-Dionigi l’Areopagita, disegna una scala angelica suddivisa in tre ordini, o cori. Sul gradino più alto del podio, accanto a Dio, stanno proprio i serafini.

Se la posizione cambia a seconda della tradizione, una cosa invece resta invariata: il significato del loro nome, śĕrāfīm, cioè ‘gli ardenti’. Il verbo radice è sāraf, cioè ‘ardere’. Sebbene siamo più abituati a vedere il fuoco come l’elemento dell’Inferno, in cui le anime dei peccatori arrostiscono con grande sollazzo dei vari demoni, esso ha delle forti valenze simboliche legate a Dio e alle sue manifestazioni (il roveto che arde senza consumarsi davanti agli occhi di Mosè o le lingue di fuoco che scendono sugli apostoli a Pentecoste, per fare due esempi propri dei due testamenti). I serafini si chiamano così perché, come si desume dal settimo capitolo del libro di Isaia e come spiega lo Pseudo-Dionigi, essi ardono dalla gioia di compiere la volontà di Dio e mantengono vivo il suo fuoco. Per accentuare ancor più il concetto, uno di essi porge al profeta un tizzone ardente da poggiare sulle labbra per purificare la sua bocca e poter infine parlare di ciò che ha visto.

Tutto ciò si nasconde dietro la lieta serenità che identifichiamo con l’aggettivo serafico. Se quindi ce lo immaginiamo come delle acque fresche e placide, stiamo sbagliando strada: la letizia che si trova nel cuore di questa parola forse non è bruciante come un fuoco appena acceso su cui cucinare la cena, ma di certo arde come un tizzone nascosto sotto la cenere, che continua a scaldare la casa anche nell’ora più buia e fredda della notte.

Parola pubblicata il 12 Febbraio 2021

Parole semitiche - con Maria Costanza Boldrini

Parole arabe, parole ebraiche, giunte in italiano dalle vie del commercio, della convivenza e delle tradizioni religiose. Con Maria Costanza Boldrini, dottoressa in lingue, un venerdì su due esploreremo termini di ascendenza mediorientale, originari del ceppo semitico.