Spleen

splìn

Significato Stato di malessere caratterizzato da noia, tristezza, insoddisfazione

Etimologia voce inglese, propriamente ‘milza’, tratta dall’antico francese splén, derivato dallo splén latino, a sua volta prestito dal greco splén, sempre col medesimo significato.

Le lingue hanno una ricchezza di termini formidabile per descrivere gli stati d’animo scuri, quelli del tripode paura-rabbia-tristezza. Tante realtà con cui la nostra specie si confronta sono contingenti, e i loro nomi sono attrezzi messi insieme o ripensati alla bisogna; ma quando si tratta di sentimenti scuri, si tratta di realtà praticamente eterne e universali — e in questi termini spesso spiacevoli, che continuiamo ad affinare, ci riconosciamo fratelli e sorelle. Come nell’Ultimo canto di Saffo scriveva Leopardi (certo triste ma terribilmente fiducioso nella comunicazione della poesia) «Arcano è tutto, / fuor che il nostro dolor».

Le parole che descrivono stati d’animo scuri devono essere ricche, particolareggiate, evocative e precise, altrimenti non nominano né dominano il demone referente. Quelle luminose invece possono anche essere rozze e sfocate e non importa quasi a nessuno (pensate all’inafferrabile chimera della ‘felicità’, una parola-cencio che indossiamo radiosamente). In effetti, si tratta probabilmente di un corollario del postulato di Luigi Tenco — «Perché scrivi solo cose tristi?» «Perché quando sono felice esco».

Spleen è una parola che capita d’incontrare alla scuola secondaria se si ha la fortuna di accarezzare i poeti maledetti, e in particolare Charles Baudelaire — e descrive una sfumatura di tristezza.
Si tratta di un termine inglese, di ascendenza greca: spleen in inglese è la milza, che attraverso antico francese e latino risale al greco splén (anche in italiano si può denominare ‘splene’, con un gusto classico, o forse rétro). Naturalmente può non entrarci Ippocrate e la sua millenaria teoria medica degli umori? No.

La milza secondo Ippocrate produceva la famosa bile nera, in greco melancholìa (mélas ‘nero’ e cholé ‘bile’): siamo quindi nel buio alveo dell’atrabile, malinconia o umor nero che dir si voglia. Infatti, uno squilibrio di bile nera produceva, in questo primitivo paradigma scientifico, un temperamento malinconico o saturnino.

Però la parola ‘malinconia’ (tutt’oggi comunissima, lo sappiamo) non si è differenziata come umore semplicemente cupo, anzi: in mezzo a una vaghezza sospesa ha una scintilla di comodità, se non di compiacimento. Victor Hugo, con sintesi memorabile, avanzava: «la malinconia è la felicità d’esser tristi» («le bonheur d'être triste»).

Ora, a dispetto della biliosa parentela, lo spleen è un’altra cosa, più pesante.
È un tipo di tristezza che comporta malessere, insoddisfazione. È gravata, ma non spenta, non del tutto abbattuta: conserva uno spazio per la riflessione (e in questo profilo somiglia alla sorella malinconia). Guardando allo spleen di Baudelaire — che titola Spleen quattro poesie dei suoi Fiori del male e che è stato determinante nella differenziazione di questo sentimento — ci troviamo dentro pure tedio, irrequietezza, ma anche umidità, fatiscenza, magnetismo cimiteriale, ossianico, e una globale insensatezza.

Possiamo parlare dello spleen della domenica pomeriggio quando non sappiamo nemmeno che cosa avremmo voluto combinare nel fine settimana, dello spleen della solita serata passata nella solita maniera con un casco che pesa sulla testa, dello spleen di un inizio di giornata che parte già senza slancio, noiosa, inquieta, nauseante.

Naturalmente è una parola più alta e meno comune di tante altre che usiamo per raccontare i nostri sentimenti, e la sua aura è più nettamente ricercata — nemmeno a dirlo, poetica. Ma anche se il suo nome è ricercato, è un sentimento comune, condiviso: tiene insieme la tristezza, la noia, il confinamento, e uno stato di disgusto successivo alla preoccupazione. Una sintesi di tratti che è importante riconoscere, esprimere, abbracciare. Anche fisicamente.

Parola pubblicata il 09 Marzo 2022