Teurgia
te-ur-gì-a
Significato Operazione magica dell’ermetismo e dei culti misterici antichi atta a compiere un’evocazione della divinità
Etimologia voce dotta recuperata dal latino theùrgia, dal greco theourgía, composto di théos ‘dio’ e da un derivato di érgon ‘opera’.
- «È una delle persone più esperte di alchimia, negromanzia e teurgia che io conosca in paese.»
Parola pubblicata il 13 Agosto 2024
Naturalmente per compiere queste pratiche non si può parlare in una lingua intelligibile, e perfino i nomi delle divinità non possono essere quelli normali, in greco — servono nomi antichi, o barbari, e in effetti tutte le formule, nei secoli, hanno finito per diventare del tutto incomprensibili. Incomprensibili in mancanza di un’iniziazione, ovviamente. Ed è bene che le formule rituali siano spogliate della possibilità di una comprensione razionale, che restino pura esperienza mistica. Beninteso, già in Egitto, patria dell’ermetismo, questo paradigma aveva trovato terra fertile, ma si diffuse ampiamente nei culti misterici mediterranei — orfici, eleusini — e la pratica trova un massimo in età imperiale. Già, ma pratica… per fare che?
La teurgia era una pratica magica comune all’ermetismo e a vari culti del genere; fra l’altro, tramite formule e riti il sacerdote teurgo animava oggetti inanimati e invasava persone con la divinità. Il primo caso in particolare era quello famoso dell’arte telestica, che in special modo consisteva nell’animazione delle statue. Il contatto così stabilito con la divinità o col demone permetteva l’operazione magica, il miracolo, la profezia.
In merito abbiamo una certa convergenza di fonti, anche se non ci confortano con troppa completezza e coerenza, e quindi richiedono una prudente lettura globale. Si va dai papiri magici, che in maniera più rapsodica e di pronto uso squadernano formule, nomi barbari delle divinità, liturgie, fino a opere poetiche da vate come gli Oracoli caldaici (oracoli non della caldaia ma della Caldea, patria dei primi antichi maghi), del II secolo, attribuiti a Giuliano il Teurgo, o come I misteri degli egizi, di Giamblico, del III secolo, che dà fondamento concettuale a tutta la pratica.
Fra III e IV secolo la teurgia trovò il suo mezzogiorno, anche accolta nelle riletture filosofiche e mistiche delle nuove scuole pitagoriche e platoniche, prima di essere via via bandita, in quanto pratica magica pagana in odor di zolfo. C’è chi proverà a riparlarne, con le idee non troppo chiare, ma non avrà più il successo di un tempo, nemmeno col revival rinascimentale — quando con Marsilio Ficino in testa impazza un nuovo interesse per questo genere di magia.
Date queste ampie premesse, capiamo che nonostante il fascino ammaliante non è facile tirar fuori questa parola dal suo ambito storico. Certo, il suo etimo è semplice e pare molto versatile — il greco theourgía si compone di théos ‘dio’ e di un derivato di érgon ‘opera, azione’. Ma la sua declinazione di significato è molto netta, e vive in un paradigma, in un orizzonte mistico piuttosto preciso. In altri termini, usare questa parola in senso più generico, come riferimento a una magia misterica, può funzionare ma rischia di perdere porzioni essenziali di significato. Posso parlare delle capacità teurgiche dell’artista che anima la pietra, della teurgia di una poesia che invasa, del carisma teurgico di una celebrante o di un oratore. Non resta che una vaga impressione — ma c’è un caso in cui questo fa gioco.
Se parliamo di teurgi, e cioè di chi esercita la teurgia, qui la vaghezza concorre al mistero, ci rende il profilo di un mago più mago, più indecifrabile. Se chiedi al teurgo di metter mano al risotto che non sta venendo come deve, se l’amico smanettone si siede al tuo computer con l’aria di teurgo, o se il teurgo ti sistema definitivamente il ginocchio che ti ha fatto male per un anno, ecco che i problemi di coerenza si assottigliano, e l’effetto si fa intenso e piacevolissimo.