Chioccio

Parole d'autore

chiòc-cio

Significato Dal suono simile a quello emesso dalla chioccia quando cova o chiama i pulcini; descrive propriamente una voce gutturale e franta, ma è spesso associato anche a un tono di voce rauco, aspro, stridulo o cupo

Etimologia neologismo dantesco derivato da ‘chiocciare’, dal verbo latino onomatopeico glocire.

“Pape satàn, pape satàn aleppe!”

Questa la sibillina esclamazione che accoglie Dante nel cerchio degli avari e dei prodighi (Inf. VII), e sulla quale generazioni di studiosi si sono arrovellate, fino a concludere che il suo significato sarebbe all’incirca riassumibile in: “Porca paletta!”

Più precisamente “pape” sembra essere un’espressione di sorpresa proveniente dal greco, mentre “aleppe” sarebbe una versione ebraizzante di “ahimè!”. “Satàn” è invece un chiaro riferimento al diavolo, chiamato in soccorso di fronte alla ribalderia di Dante che ha osato penetrare, ancora vivo, nel regno dei morti.

Piuttosto misterioso è anche il personaggio parlante. Da quel che si capisce somiglia a un lupo e risponde al nome di Pluto, tuttavia non sono attestati legami di parentela con il celebre canide di Topolino. Sicuramente è una libera reinterpretazione di un dio greco-romano, anche se l’identificazione oscilla tra Pluto, figlio di Demetra e dio della ricchezza, e il più celebre Plutone, alias Ade, dio degli inferi.

Certo è che le fatidiche parole sono pronunciate con “voce chioccia”, un aggettivo coniato da Dante a partire dal verbo ‘chiocciare’. Ma anche quest’espressione non è trasparente come sembra. Solitamente è parafrasata con ‘voce rauca e stridula’; questo però è piuttosto il verso di una pulzella un po’ bisbetica e non di una chioccia, che emette invece qualcosa di simile a un ‘glu glu’ (Pascoli, come sempre sprizzante di gioia, dice che “singhiozza”). Del resto è proprio da qui che viene per onomatopea il verbo ‘glocire’, poi evolutosi in ‘chiocciare’.

Non è un suono particolarmente intimidatorio, a dirla tutta; certo non è quello che ti aspetti da un degno mostro infernale. Da qui l’insistenza dei commentatori nel descrivere la voce di Pluto come cupa, aspra e stridente, col risultato che oggi, se per un bizzarro caso voleste definire una voce ‘chioccia’, forse nemmeno voi sapreste spiegare che cosa intendete.

Magari però quel che Dante voleva esprimere era davvero un ‘glu glu’, ossia un suono gutturale e sincopato; come quando, colti impreparati da uno sgarbo, non riusciamo a produrre altro che un: “Ma..! Ma…! Ma…!” Così il poeta suggerisce anche la degradazione animalesca e un po’ ridicola insita nel peccato d’avarizia, evocando l’immagine della chioccia in un senso insolitamente negativo: Pluto, come l’avaro tipico, ha l’animo meschinello di una gallina che gelosamente presidia le uova o i pulcini, e sprofonda in un ansioso sgomento al solo pensiero che un estraneo minacci le sue proprietà.

Resta da spiegare però l’altra occorrenza del termine, ossia le “rime aspre e chiocce” che Dante rimpiange di non possedere nel canto XXXII. Di solito i due aggettivi sono intesi come sinonimi, perciò la frase sarebbe una delle tante preterizioni sparse per la Commedia: Dante afferma di non possedere un linguaggio abbastanza duro per descrivere il fondo dell’inferno, salvo poi lanciarsi in un’esibizione virtuosistica di rime stridenti.

C’è però anche un’interpretazione più curiosa. Se definiamo il chiocciare come un suono franto, a singhiozzo, forse le ‘rime chiocce’ sono quelle che seguono uno schema irregolare. Ma allora il pensiero di Dante potrebbe aver sfiorato qui, per un istante, scelte stilistiche dei secoli a venire, come i versi liberi, frantumati o prosastici della poesia contemporanea. Poi però il Sommo deve aver considerato che ai poveri moderni non sarebbe rimasto più nulla da inventare… e ha tirato dritto con le sue terzine.

Parola pubblicata il 17 Maggio 2021

Parole d'autore - con Lucia Masetti

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