Arlecchino

L'italiano sul palcoscenico

ar-lec-chì-no

Significato Persona travestita da Arlecchino; buffone; con colori variegati, o elementi eterogenei

Etimologia dal francese antico hellequin o harlequin, diavolo delle rappresentazioni medievali, probabilmente originato dalla processione della mesnie Hellequin.

Arlecchino è una delle maschere italiane più celebri. Si riconosce senza difficoltà per il suo abito fatto di toppe colorate e, sul volto, una maschera nera con grande naso, ghigno e fronte bitorzoluta, e anche i tratti del suo personaggio sono fra i più riconoscibili - quelli del povero diavolo di servitore, scherzoso, grossolano e sciocco con qualche sprazzo di astuzia, e molto fisico, molto agile.

Così oggi quando in italiano parliamo di un arlecchino, o consideriamo una persona letteralmente travestita da arlecchino, oppure parliamo in senso lato di un buffone, di una persona che ama gli scherzi - e che in genere ha i caratteri personali di quella maschera. Ma non solo. Forse l’uso più importante (sebbene più recente) è oggi quello aggettivale, che descrive la qualità del variegato, di ciò che mostra un insieme di colori vivaci, ma con una certa trasandatezza (quale è il vestito di questa maschera di straccione). Così il parlamento approva una legge arlecchino che interviene alla buona rattoppando situazioni disparate; per Natale, non avendo un servizio di piatti sufficiente per tutta la famiglia, compongo un servizio arlecchino con tutti i pezzi scompagnati che ho in casa; e per scendere un attimo in farmacia non starò certo a cambiarmi ed esibirò una mise arlecchino.

C’è però una questione, riguardo all’arlecchino, che ci permette di scendere nelle misteriose profondità delle lingue: l’origine del suo nome. Lo dicono concordi tutte le fonti: la figura di arlecchino è mutuata da una versione via via degenerata della mesnie Hellequin. Interessante. Ma che cosa diamine è la mesnie Hellequin?

C’è un tema mitico, superstizioso, che pervade da millenni il cuore dell’Europa: quello della caccia selvaggia. Celti, Germani, Normanni condividevano un immaginario in cui il mondo è percorso dal selvaggio e sovrannaturale trascorrere di bande, famiglie, masnade (mesnie) di divinità, di demoni, di morti, di bestie feroci — da quelle delle valchirie che recuperano gli spiriti dei valorosi caduti in battaglia alla Regina Mab del monologo di Mercuzio in Giulietta e Romeo. Con l’avvento del cristianesimo queste bizzarre processioni — variamente raccontate e testimoniate e rievocate e rappresentate — si sono arricchite con santi, diavoli e anime dannate, ed esistono ancora oggi. Nell’XI secolo un monaco anglonormanno, Oderic Vital, narra nella sua Storia ecclesiastica dell’apparizione di una familia Herlechini, un corteo di questo tipo, così chiamato perché ha alla testa re Herla, un diavolo medievale francese.

Fu nella seconda metà del Cinquecento che un attore della città di Bergamo, Alberto Naselli (o Gavazzi), grande viaggiatore che già aveva portato il suo teatro in Spagna e in Francia, tornò in Italia con l’idea di incrociare la maschera dello Zanni (povero diavolo nostrano) con quella delle figure tradizionali che erano nate dalle rappresentazioni diaboliche della mesnie Hellequin. Ne venne fuori l’arlecchino. Ancora una volta, una parola del teatro italiano che è un vero compendio di Storia europea.

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Nel 1601 vengono alla luce due pargoli piuttosto importanti: in Inghilterra l’Amleto e in Italia l’Arlecchino. Anche se, per la verità, Arlecchino gironzolava già da un po’ prima che una penna l’acchiappasse per fissarlo sulla carta. Entrambi nascono in contesti teatrali consolidati, dato che nel Rinascimento il teatro è maturato ben bene all’interno delle corti, per poi rivolgersi sempre più al pubblico popolare (meno raffinato, ma con l’importante pregio di pagare i biglietti).

In Italia però le tournée pongono un problema: perché l’Italia, in realtà, non c’è ancora. Al suo posto c’è un mosaico di staterelli. Perciò passare da Milano a Roma richiede non solo un passaporto, ma possibilmente anche un interprete, perché ogni città parla un dialetto diverso. Per questo gli attori puntano su una comicità fisica e immediata, improvvisata sulla base di una sceneggiatura molto vaga (il canovaccio). Inoltre portano in scena pochi personaggi fissi, riconoscibili dalla maschera e dal costume. Il nuovo tipo di teatro, che prende il nome di Commedia dell’Arte, avrà un successo strepitoso, anche fuori dall’Italia.

La maschera più famosa è appunto Arlecchino: uno strano miscuglio tra il servo della commedia latina, il giullare medievale e i diavoli del teatro religioso. Come il servo, Arlecchino è povero in canna: perciò ha sempre fame e porta un vestito fatto di toppe, che però ricorda anche il costume sgargiante del giullare. Dal diavolo prende invece una maschera animalesca, nella quale le antiche corna si rattrappiscono in un buffo bitorzolo.

Quanto al carattere, Arlecchino in pratica è un bimbo troppo cresciuto. Vivacissimo e scapestrato, non sta fermo un istante – tanto che per interpretarlo occorrono considerevoli doti acrobatiche. Inoltre riesce a pensare a una cosa sola per volta, perciò si butta a capofitto nelle situazioni senza considerare il contesto e le conseguenze. Tuttavia è abile tanto a mettersi nei pasticci quanto a tirarsene fuori, improvvisando trucchi e burle. L’unica cosa che proprio non si rassegna a fare è lavorare.

Eppure questo personaggio così allegro ha un fondo malinconico, che inaspettatamente lo avvicina un po’ al suo fratellino Amleto. La povertà, la fame, le bastonate così spesso ricevute… Arlecchino forse ride perché ha troppo di cui piangere. E così incarna un’attitudine che un celebre scrittore del Novecento, Italo Calvino, considerava tipica del popolo italiano: “Viviamo la disperazione col massimo d’allegria possibile. Se il mondo è insensato, l’unica cosa che possiamo fare è dargli uno stile.”

Parola pubblicata il 13 Novembre 2019

L'italiano sul palcoscenico - la Settimana della lingua italiana nel mondo 2019 (in India)

Su incarico dell'Istituto Italiano di Cultura di Mumbai, oltre che del Consolato Generale d'Italia a Mumbai e con l'associazione dell'Istituto Italiano di Cultura di Nuova Delhi, la settimana dall'11 al 17 novembre vi proponiamo un ciclo di sette parole con cui ripercorrere la storia del teatro in Italia, da quello antico al contemporaneo: festeggeremo così la XIX Settimana della lingua italiana nel Mondo (in India è differita a questa settimana). Questa edizione gravita sul teatro e l'opera: le parole sono di Giorgio Moretti, gli approfondimenti sul teatro di Lucia Masetti.