Congedo

Giorgio Caproni, le parole

con-gè-do

Significato Permesso di partire; separazione, e saluti che la precedono; cessazione dal servizio; periodo di astensione dal lavoro

Etimologia dall’antico francese congiet, dal latino commeatus ‘licenza di partire’, propriamente ‘andare e venire, circolazione’, da commeare ‘andare e venire’, derivato di meare ‘passare’, col prefisso con-.

  • «Il dolce è finito e io prendo congedo.»

Congedo e commiato sono fratelli, anche se congedo è nato in Francia e hanno finito per prendere strade diverse.

Sono discendenti del latino commeatus, che ha il significato riconoscibile di ‘licenza di partire’, e che però letteralmente indicava l’andare e il venire — tale il senso di commeare, derivato di meare, ‘passare’, col prefisso con-.

Quelli del congedo e del commiato sono momenti di avvicendamento — c’è chi arriva c’è chi parte — ma non abbiamo l’equanimità di leggerli così: li cogliamo soprattutto come momenti di partenza, di conclusione. E sono momenti naturalmente ricchi di sentimento, ma proprio in questo campo congedo e commiato divergono.

Il commiato ha acquistato una sfumatura spesso intima, più incline al sentimento, meno gerarchica, meno riferita a un ruolo e alla sua fine. Se viene il momento del commiato (permesso di allontanarsi e partenza insieme), sappiamo che ci sarà una vena di commozione — è una dimensione da cui il commiato non sfugge, quella di un finale significativo; mentre il congedo, anche se si muove nello stesso concetto, conserva uno spazio pragmatico forse più vicino all’originale maturazione latina, di ambito militare.

Congedi parentali e matrimoniali, ufficiali in congedo e simili, contribuiscono a tenere un piede del congedo sullo stabile, prosaico terreno della burocrazia. L’altro invece poggia sulle altezze del saluto solenne ma non pomposo che precede la separazione, e della separazione stessa: dando congedo si fa allontanare qualcuno, e si adombra il potere di disporre degli spostamenti altrui; prendendo o chiedendo congedo si parte, e si sottende il dovere di rispettare un cerimoniale. Dà ragione di un uso pubblico, non perché debba avvenire in pubblico, ma perché risponde a una certa ritualità civile.

Così chiediamo rapidamente congedo alla mamma dopo aver scambiato due parole urbane con le insopportabili prozie, lo spettacolo di marionette si chiude con un congedo che strappa risate e applausi, e giunti alla stazione ci scambiamo un rapido congedo con le persone che ci hanno fatto compagnia durante il viaggio.


Amici, credo che sia
meglio per me cominciare
a tirar giù la valigia. […]

Chiedo congedo a voi
senza potervi nascondere,
lieve, una costernazione.
Era così bello parlare
insieme, seduti di fronte:
così bello confondere
i volti […].

Giorgio Caproni, “Congedo del viaggiatore cerimonioso” in “Congedo del viaggiatore cerimonioso & altre prosopopee”

Non ci sarebbe motivo di essere inquieti quando si scende da un treno. Eppure l’ansia da pre-stazione è un disturbo comune: si radunano i bagagli prima del necessario, talora si chiacchiera nervosamente con i compagni di viaggio…

Forse perché nei treni c’è qualcosa di inquietantemente metaforico. Filano veloci come il tempo, che ci porta di stazione in stazione e non fa mai retromarcia. E infine arrivano, fatalmente, a destinazione; a destino, possiamo anche dire.

Caproni, quest’ansia da pre-stazione, l’ha sentita tutta la vita. Già dalle sue prime poesie trasmette un senso di precarietà, come se guardasse il mondo con gli occhi di chi lo sta per lasciare. In un certo senso tutta la sua poesia è stata il congedo di un “viaggiatore cerimonioso” dall’abile parlantina.

Ma perché poi tirarla tanto per le lunghe? Le parole certo non possono fermare il treno. Tuttavia possono, forse, rallentarlo: volgendosi a guardare ciò che sta lasciando, il poeta-viaggiatore cerca di trattenerlo, di farlo durare. Soprattutto la bellezza degli incontri: tutti i volti che hanno lasciato un’impronta sul suo e che, a loro volta, l’hanno ricevuta.

Le parole poi servono anche all’esatto contrario: andare “avanti veloce”, proiettandosi già al termine della corsa. Il viaggiatore può così diluire un poco il dramma dell’addio ed educarsi gradualmente alla partenza, per affrontarla con consapevolezza e coraggio.

Eppure tutto questo forse non basta. Alla fine tutto quello che rimane è la nebbia in cui scende il viaggiatore, arrivato alla sua stazione; e il suo viaggio è come se non fosse mai avvenuto. “Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. // Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai.” Questo Biglietto lasciato prima di non andare via è emblematico dei tanti testi caproniani in cui partire e restare si equivalgono, come se il viaggio di una vita non avesse valore.

Ma forse il suo messaggio non è tutto qui. Forse restare è partire perché siamo sempre tesi in una ricerca che non ha nome, e magari proprio quando sembriamo tranquillamente seduti al tavolino stiamo scrivendo una «cartolina / da Vega, ch’è la stella, / dicono, più vicina» (Ti mando questa bella).

E forse partire è restare perché il mondo di là si compone delle stesse piccole cose tra cui ci muoviamo ora, nelle quali c’è già, nascosto, un accesso al mistero (e forse, chissà, a una qualche salvezza): “Quando mi sarò deciso / d’andarci, in paradiso / ci andrò con l’ascensore / di Castelletto” (L’ascensore).

Parola pubblicata il 12 Ottobre 2022

Giorgio Caproni, le parole - con Lucia Masetti

Ci avventuriamo insieme in un viaggio insolito — cioè nelle parole di un poeta grande e poco conosciuto del secolo scorso, Giorgio Caproni, a cui dedichiamo una settimana di pubblicazioni a tema.