Ermo
Leopardi spiega parole
ér-mo
Significato Come aggettivo vale ‘solitario, isolato, abbandonato, disabitato, deserto’; come sostantivo è una variante, poco comune, di eremo
Etimologia voce letteraria, forma sincopata di èremo, derivata dalla voce greca erèmos (o èremos) ‘deserto, solitario, abbandonato, privo, mancante’, attraverso la mediazione del latino tardo èremus.
- «Sono stata in visita a Recanati e ho visto il famoso “ermo colle” di Leopardi»
Parola pubblicata il 31 Ottobre 2022
Leopardi spiega parole - con Andrea Maltoni
Giacomo Leopardi, oltre ad essere un grande poeta, ha osservato e commentato esplicitamente molte parole della nostra lingua. Andrea Maltoni, dottoressa in filologia, in questo ciclo ci racconterà parole facendolo intervenire.
Esiste un ben gremito gruppo di aggettivi, sostantivi e verbi tutti figli di una stessa radice, di un’immagine che dalla sua arida infertilità ontologica è diventata, nella lingua, un terreno creativo assai fecondo. Si tratta del deserto, in greco erèmos (o èremos), un aggettivo che significava ‘abbandonato, solitario, disabitato’, e che poi, attraverso l’associazione del tipo “luogo deserto”, era arrivato ad indicare il deserto tout court.
In questo passaggio Leopardi aveva riunito i numerosi e internazionali membri di questa famiglia allargata segnalandone la forte carica poetica, data da quel senso di infinita vastità che ciascuno di essi, nella sua specificità, sa evocare.
La triade italiana formata da romito, eremo (dei quali abbiamo già avuto modo di parlare) ed ermo ci offre un saggio interessante degli sviluppi eterogenei che possono nascere da una stessa radice.
Rispetto ai fratelli, ermo è in primo luogo un aggettivo, per lo più riferito a luoghi dei quali evoca l’ubicazione solitaria, appartata, isolata, dove la natura e il silenzio la fanno da padroni:
Un usignolo, intento nei suoi canti al sorgere dell’alba, sente che “i segreti silenzi” del bosco vengono rotti dai lamenti di un giovane afflitto dalle pene d’amore, che si era allontanato dalla città in cerca di un luogo appartato, ermo e selvaggio per l’appunto, dove dar libero sfogo alle sue sofferenze.
Solitudine e silenzio risuonano anche nell’ermo santuario di Pascoli e nell’animo della monaca che lo abita:
Immagini di luoghi remoti, isolati, che sanno accogliere tanto il vuoto quanto chi del vuoto è alla ricerca, abitati da silenzi immensi, unici rifugi per gli spiriti solitari.
Come quello del Bruto leopardiano che, qualche attimo prima di togliersi la vita, percuote l’aria con un monologo tagliente e vibrante degli interrogativi e della rabbia di un uomo che ha perso la speranza. Così ce lo consegna il poeta:
Nel manoscritto di questa poesia si leggono, a proposito dell’erma sede, due possibili varianti all’aggettivo quali “riposta” e “solitaria”: è indubbia la felicità della scelta finale operata dal poeta, di quest’ermo che meglio di qualunque altro sa dire “l’indefinita e sgomenta solitudine del luogo e dell’eroe insieme” (L. Felici) e apre così a uno dei notturni più belli e strazianti di sempre.
Non solo però sede di dolore: luoghi ermi sono stati e sono destinazione e rifugio di spiriti contemplativi, alla ricerca di un contatto profondo con sé stessi, con la natura, con il divino, nella sacralità di una quiete silenziosa.
Ed è qui che si incrociano i destini dei due fratelli, ermo ed eremo: di fatto un’unica parola, ma divisa da quella vocale di troppo (o di meno) che ne ha determinato due storie differenti. Eccoli ritrovarsi allora faccia a faccia in quelle occasioni in cui, da aggettivo, ermo si fa sostantivo (“luogo solitario in cui dimora un eremita, monastero, ecc..”) o viceversa eremo si fa aggettivo (“solitario, isolato”).
Storie differenti ma che si rispecchiano e che si incontrano lì dove abita il silenzio, nella preziosa profondità della solitudine, nella potenza di quel vuoto che è così vitalmente necessario per ogni tipo di rinascita.