Favoleggiare
fa-vo-leg-già-re (io fa-vo-lég-gio)
Significato Raccontare favole; rappresentare, riportare con i modi e i tratti della favola; riferire come congettura; fantasticare
Etimologia da favola, derivato dal latino fabula, col suffisso -eggiare.
- «Nell'antica Roma si favoleggiava dei mostri che si trovavano in parti remote dell'Africa e dell'Asia.»
Parola pubblicata il 01 Settembre 2022
Certe parole danno pennellate ampie. S’incaricano di una nuvola incerta di significati, e ne fanno una sintesi brillante, icastica, usando categorie che decodifichiamo immediatamente in tutta la loro portata. Parole favolose, si direbbe.
A vedere il numero di concetti che viene raccolto nel favoleggiare, c’è da trasecolare: narrare favole o in modo favoloso, indulgere nell’irreale, immaginare, fantasticare, congetturare, creare illusioni, inventare, dire cose fantastiche, arzigogolare — un tempo comprendeva anche il discorrere piacevolmente, il motteggiare. Come cucinare tutto questo insieme?
Tutto nasce dalla favola, un oggetto narrativo che nella sua volatilità e nei suoi confini incerti è una presenza concretissima nella nostra vita e una categoria comune del nostro pensiero, così come lo è stato nella vita di chi ci ha preceduto nei millenni. Il fatto che questo racconto di fantasia abbia questa centralità si desume anche dal fatto che il suo antecedente latino, fabula, è un derivato diretto di fari, cioè nientemeno che ‘parlare’. Viene quasi il dubbio che tutto il parlare sia un favoleggiare.
Già perché solo una porzione piccola del favoleggiare è letteralmente un ‘narrare favole’, nel senso oggettivo di racconti brevi con componente fantastica e intento morale. Ci parla soprattutto di un rappresentare, di un riportare che ha i modi e i tratti della favola, in una vera intersezione fra favola e realtà. Dopotutto le meraviglie di ciò che si credeva possibile erano molto più vaste, un tempo.
La fantasia e l’immaginazione (prendiamole nel ‘fantasticare’) possono avere una dimensione di intimità totale; ma la favola ha una sostanza linguistica, è un luogo fatto di parole, e perciò accessibile e concreto.
Se favoleggio di mondi lontani, raccontando che cosa vi si potrebbe trovare, non mi sto proiettando immagini sciolte su uno schermo interiore, sto allacciando fili fra il reale e l’irreale; se arrivo finalmente in una città di cui ho tanto sentito favoleggiare, mi muoverò per le sue strade (è Samarcanda? è Kyoto? è Certaldo?) in un intreccio fra ciò che vedo e un viluppo di romanzo; se si favoleggia dell’amore sbocciato fra due persone che conosciamo, quel che si dice è un ricamo sulla tela del reale — giusto una congettura, un’anticipazione di trama.
Qui troviamo il nostro splendido suffisso frequentativo ‘-eggiare’ al massimo della sua eloquenza: il favoleggiare moltiplica l’unità della favola in un comportamento che la reitera, la riaggancia, la riporta, la ripresenta — in un labirinto di fantasie che si avvicina all’abitudine: difficilmente i favoleggiari sono isolati. Questo suffisso è ciò che fa funzionare il favoleggiare: ad esempio, l’analogo ‘favolare’ ha avuto un successo molto minore, ed è desueto.
Come si vede dagli esempi, il termine è di comprensione immediata, sebbene il concetto sia difficile. Può essere coperto in una parte dall’impalpabile fantasticare, in una parte dalle escogitazioni dell’almanaccare, in una parte (però evidentemente stiamo grattando il fondo del barile) dallo strologare nel suo tentativo di indovinare, di spiegare con fantasia. La realtà è che il favoleggiare è l’unico verbo che riesce a cogliere questo taglio di mondo, questo sforzo narrativo che si fa comportamento, e che annoda i fili di realtà e fantasia. Sarà un caso, ma le prime attestazioni del favoleggiare sono nella Commedia di Dante.