Insito

ìn-si-to

Significato Intimamente radicato

Etimologia voce dotta recuperata dal latino insitus ‘innestato’, participio passato di insèrere ‘innestare’, da sèrere ‘seminare, piantare’, con prefisso in-.

  • «Sono molti i significati insiti in quest'opera.»

Dentro qualcosa c’è qualcos’altro. Messa così sembra banale, eppure l’insito ce lo comunica con una forza e quasi un’urgenza che meritano di essere notate, perché il discorso non è dappoco, né da un punto di vista della densità filosofica né da quello della capacità linguistica.

Questo fatto del mondo, che esistono cose che si compenetrano, è estremamente rilevante. C’è un universo di valori, di opportunità, di problemi e di pericoli che non è isolato in piena evidenza, che per essere compreso richiede un’analisi, un’indagine. Ciò che l’insito ci indica è letteralmente il punto d’innesto — e come spesso facciamo parlando di parole, stiamo parlando di un innesto botanico. Per capirci qualcosa, saltiamo fra qualche fronda latina.

Ci sono due verbi sèrere, in latino, due sosia che si distinguono solo per qualche voce della loro coniugazione, nonostante un significato diverso e una differente origine. Un sèrere che abbiamo incontrato molte volte, che significa ‘intrecciare’ ed è estremamente prolifico — quello che dà origine al serto, alla dissertazione, al sermone, all’asserire e all’inserire — e un altro sèrere, che se ne sta più in disparte, e che significa ‘seminare, piantare’. Oggi ci interessa quest’ultimo.

Il latino insèrere, quando è derivato del sèrere-intrecciare, dà origine al verbo ‘inserire’. Invece il participio passato dell’insèrere derivato del sèrere-seminare è l’insitus da cui gemma l’aggettivo ‘insito’. Questo secondo insèrere sarebbe un ‘seminare, piantare dentro’, che però prende anche un altro significato concreto, quello di innestare.

Quella dell’innesto è una pratica agronomica che consente di propagare una pianta, e consiste nella fusione di una pianta con un’altra: una parte aerea (che, mettiamo, produce i frutti che desideriamo) viene fisicamente impiantata sul legno vivo di un’altra pianta, il portainnesto (che, mettiamo, ha radici resistenti a certi parassiti). È una pratica antica, nota all’agronomia romana; in effetti lo stesso verbo ‘innestare’ è il risultato di una serie di passaggi non attestati che hanno portato, da insèrere, prima al frequentativo insitare, quindi a un ininisitare e al nostro innestare.

Ora, se parlo del pericolo insito in un’affermazione, del valore culturale insito in una tradizione artigiana, del cosmopolitismo insito in una certa filosofia, del rischio insito nell’impresa, parlo di qualcosa di inserito profondamente nella sostanza di qualcos’altro, di congiunto. Fra le fronde di un tutt’uno, con la giusta capacità di discernimento, posso trovare innestato qualcosa che si può distinguere — pericoli, valori, caratteri, e via dicendo.

Attenzione al punto curioso: se parlo di come certi elementi si sono innestati in una celebrazione, ciò che marco è il fatto che si tratti di elementi alieni, dotati di diversa identità. L’accento dell’insito invece è sulla saldatura, sulla continuità: nella ramificazione di un fenomeno troviamo fusa, e talvolta dissimulata, una seconda natura. Abbiamo usato due esiti della medesima parola latina, uno popolare uno dotto, per tagliare due aspetti diversi della stessa pratica — o meglio, di ciò che metaforicamente ci significa la pratica dell’innesto.

Rispetto all’innato, al connaturato e all’intrinseco, che parlano di una partecipazione completa e omogenea fra due nature, l’insito ci offre proprio quello sguardo, quel tocco che esplora una ramificazione, che trova il callo nel legno e scopre un tratto non considerato, una discontinuità, una particolarità: in mezzo a quella chioma complessa evidenzia qualcosa di specifico e insieme incorporato, radicato.

Insomma, appuntito nel suo suono sdrucciolo, ricercato nel suo registro alto, l’insito è tanto più fine e complesso di quel che sembra.

Parola pubblicata il 28 Marzo 2023