Panacea
pa-na-cè-a
Significato Rimedio che guarisce tutti i mali; soluzione che risolve tutti i problemi
Etimologia voce dotta recuperata dal latino panacea, dal greco panákeia, propriamente ‘che cura tutti i mali’, composto di pân ‘tutto’ e akêisthai ‘curare, guarire’.
- «Ah, bevitene un bicchierone la mattina appena apri gli occhi, è una panacea!»
Parola pubblicata il 18 Settembre 2024
Il rimedio che cura tutti i mali. Significato formidabile — con solo una trascurabile pecca nel fatto che tale rimedio non esiste. Ma prima di approdare a questo significato così fulgido, elegante e attraente, la panacea ha indicato una valanga di roba.
Non siamo davanti a un farmaco mitico dell'antichità greca, anche se di profilo assomiglia a nettare e ambrosia, e può confondervisi. Il greco panákeia ha indicato un insieme di piante dalle proprietà medicamentose — il verbo akêisthai significa ‘curare’, mentre pân significa ‘tutto’, e in italiano a ‘panacea’ si alterna la variante ‘panace’. Peraltro, per gli standard antichi, è anche un insieme piuttosto coerente, perché ha indicato in maniera speciale piante della famiglia delle Apiacee o Ombrellifere — come quelle del genere Heracleum, Levisticum e Thapsia. Con una simpatica coerenza, un genere della famiglia delle Araliacee (tassonomicamente prossimo) è stato battezzato Panax, ed è il ginseng, ben noto per le sue proprietà.
Quindi la panacea nasce da un sostrato terragno e molto concreto di erboristeria dei tempi andati. A cui però si aggiunge, dal Rinascimento, una sequela di significati chimici, o meglio alchemici. Sostanze, composti e miscele (soprattutto sulfuree) si avvicendano con questo nome in un carosello di farmaci dalle grandi capacità curative e anche in grado di allungare la vita. È qui che la panacea prende la sostanza di una panacea universale. Anche qui, però, senza trascendenze: la ‘panacea universale’ era il chermes minerale (non la cocciniglia), un solfuro d’antimonio, che oltre ad essere essenziale per la Grande Opera, la fabbricazione dell’elisir o pietra filosofale, era e pare sia ancora apprezzato come espettorante, diaforetico ed emetico (cioè, in parole più piane, fa scatarrare, sudare e vomitare).
La lingua è corsa avanti: le distinzioni fra le piante officinali nel discorso comune si fermano al discrimine fra basilico e rosmarino, e i riferimenti circostanziati ai farmaci alchemici che promettono guarigioni universali hanno perso smalto. Già nel Seicento medici e scienziati italiani — di quelli che avrebbero gettato le basi per la medicina moderna — iniziano a usare il termine ‘panacea’ in maniera più indefinita, intendendo promettenti medicine da ciarlatani. Anche se la chimera della panacea continuerà ad essere inseguita.
Oggi se ne parla soprattutto in iperboli, quando esageriamo le proprietà terapeutiche di qualcosa fino alla taumaturgia (anche con ironia), o in senso figurato. Posso parlare di come quest’infuso di erbe amare come la morte sia una vera panacea, o di come per lo zio l’unica vera panacea stia in contenitori di vetro col tappo di sughero; ma posso anche parlare di come il turismo sia visto come la panacea per i problemi della comunità montana, o di come l’onestà sia una panacea per il dibattito pubblico.
Ecco, abbiamo assistito all’astrazione della panacea. Da varia erba comune usata in medicina, che per la sua versatilità si diceva curasse tutti i mali, diventa farmaco esoterico, e quindi farmaco postremo, che risolve in maniera finale l’impiccio di qualunque male. Una sofisticazione intensa, che ha finito per offrirci la quintessenza di un concetto.