Dono
dó-no
Significato Atto del donare, regalo; concessione; dote, virtù
Etimologia dal latino donum, con la stessa origine di dare, da una radice indoeuropea.
Parola pubblicata il 18 Ottobre 2023
L'italiano sostenibile - la Settimana della lingua italiana nel mondo 2023 (Polonia)
Su incarico dell'Istituto Italiano di Cultura di Cracovia, per la XXIII Settimana della lingua italiana nel mondo, da lunedì 16 a venerdì 20 ottobre vi proponiamo un ciclo di parole che contempla alcuni tagli del tema della sostenibilità ambientale (tema scelto dal Ministero per la Settimana), cercando i concetti che lo compongono nei meandri della nostra letteratura. La trattazione del termine è di Giorgio Moretti, gli approfondimenti letterari di Lucia Masetti.
Quando troviamo molte parole a denotare lo stesso concetto, pur se con connotazioni sensibilmente differenti, abbiamo la sicurezza di star osservando un nodo rilevante, una realtà rilevante, che richiede molti manici per essere afferrata opportunamente secondo necessità.
Il termine ‘dono’ subisce una sorte particolare, che deve alzare la nostra soglia di attenzione: in tutto l’arcipelago di sinonimi è quello più diretto, lineare, chiaro, e anche semplice. E però è anche fra quelli concretamente più elevati, anzi probabilmente è il termine che percepiamo come più alto.
«Ti ho fatto un...» ‘regalo’, magari, e figuriamoci, il regalo è letteralmente nato come ‘dono fatto al re’, che c’è di meglio? E però, proprio per mostrarsi di valore tramite un riferimento sommo, ha un esito normalone, protocollare, anche abbastanza dovuto — compleanni, natali — ed è quello che più facilmente innesca la spirale del contraccambio.
L’‘omaggio’? Ancora di più, e forse peggio: l’omage è il voto feudale con cui si diventa om del sovrano, mani giunte nelle mani giunte, offerta di fedeltà devota — e oggi bicchierino esclusivo in omaggio riservato solo per te che compri questa bottiglia edizione limitata che si trova in tutti i punti-vendita. Dai corridoi degli antichi palazzi a quelli dei supermercati. I riferimenti alti sono pretenziosi, e come nelle fiabe, con presunzione, finiscono livellati nell’ordinario.
Il ‘pensiero’, invece, è volutamente riduttivo, sminuente, un esercizio di understatement o asteismo: se ti ho fatto un pensiero, è un nonnulla che appena appena adombra ciò che si confarebbe per tuo riconoscimento, o che nemmeno merita d’essere ricambiato — figuriamoci se deve scomodare gratitudine.
Il ‘presente’ pare una buona alternativa (anche un po’ anglofila), pur se l’esito è un po’ quello del regalo-segnalino, della mano alzata; la ‘sorpresa’ non è astratta perché deve sorprendere, il ‘ricordo’ nemmeno perché deve essere sintesi di un’esperienza autentica. E non parliamo di offerte, oboli e largizioni, che collochiamo sotto il complesso ombrello della carità.
‘Dono’ è un termine che nasce semplicemente della pianta del ‘dare’. Ma badiamo: donum non è solo un termine latino, è ricostruito pari pari come voce indoeuropea, con una quantità di riscontri in lingue distanti. Questo nome tratto dall’azione del dare — che non tira in ballo offerte al potere, intenzioni, funzioni, che è solo questo, di pulizia minimalista — finisce per essere una parola che usiamo nientemeno che con reverenza. Non di rado anzi la evitiamo per paura. È qualcosa che viene dato e in questa sintesi si fa il vuoto intorno, si staglia in tutto il suo rilievo umano e morale, e perfino spirituale.
Già perché non parliamo dell’omaggio della salute, ma del dono della salute; la persona con una dote particolare e formidabile diciamo che ha un dono, non un regalo. Invece, uno splendido tramonto ci può parere solo l’ultimo dei doni di una giornata meravigliosa; e se arrivo da te con un dono, ecco che ci catapultiamo in una dimensione in cui ti sto dando qualcosa di significativo, qualcosa che raccoglie in sé tutta la considerazione, tutta la premura che ho per te. E anche se ci può essere reciprocità, nel donare, anche quando è un atto concreto il vincolo sociale di reciprocità ne esce abbastanza squassato: se mi doni uno degli orecchini di tua nonna (l’altro lo tieni tu), non mi balena in cuore un «adesso non siamo più pari, dovrò portarle un bel ciclamino», ma un semplice senso di gratitudine, una riconoscenza reciproca. «Io ho quel che ho donato» è forse uno dei motti più scandalosi di Gabriele D’Annunzio.
Quella del dono sembra essere un’inquadratura stretta ed eloquente: senza troppi prima, senza troppi dopo, senza grandi contorni, in un momento di condivisione piuttosto pura. Si capisce perché sia una parola che mette in soggezione, anche se pare banale: è un saggio di autenticità.
Turandot, spietata principessa, impone ai suoi pretendenti tre indovinelli e fa uccidere chiunque non sappia risolverli. Sembra quasi una macchina, programmata per reagire in modo sempre identico, nella completa indifferenza per le vite che tritura nel suo meccanismo. Nell’opera non si era mai vista un’eroina simile e anche la musica che l’accompagna è anomala, dissonante.
Un eroe ben più classico è il principe Calaf, che arriva in Cina in incognito e subito si innamora di Turandot. In questa coppia, dunque, sembra che si incontrino due mondi: quello moderno, che affascina e spaventa, e quello tradizionale, che pare superato eppure ha ancora tanto da insegnare. E forse l’intera opera è un tentativo (incompiuto) di integrarli.
L’incontro-scontro ha inizio quando Calaf indovina le risposte dei tre indovinelli: “la speranza”, “il sangue”, “Turandot”. Poi, commosso dalla disperazione della principessa, le propone a sua volta un enigma: “Se mi dirai il mio nome entro l’alba, potrai uccidermi; altrimenti dovrai sposarmi.”
In termini simbolici è come se Calaf riportasse alla luce tre aspetti della vita che, per il mondo moderno, sono diventati enigmatici come indovinelli. Primo: la speranza. Turandot vive in un eterno presente, dove tutto resta in fondo sempre uguale; è Calaf che le fa riscoprire la bellezza dell’attesa.
Secondo: la carne. Turandot è astratta come un computer, per lei gli uomini sono numeri, membri intercambiabili di una stessa categoria. Calaf invece la ama come una donna concreta, insostituibile, che lui vuole con sé non “riluttante, fremente” ma convinta e intera nel suo amore.
Terzo: la relazione. Turandot è un enigma anche per sé, quasi avesse perso la propria anima. Calaf dunque la svela a se stessa e le chiede di fare altrettanto per lui. Il più grande indovinello è il nome dell’Altro, l’essenza della persona unica e meravigliosamente complessa che abbiamo di fronte.
Turandot, tuttavia, non si arrende facilmente: tortura Liù, la serva di Calaf, per farle rivelare il nome del principe e vincere la sfida. E qui avviene la vera rivoluzione.
Liù ama Calaf perché lui, una volta, le ha sorriso: quello sguardo umano, capace di cogliere un valore in tutti, quell’ideale di gentilezza che oggi sembra così arcaico, hanno sprigionato una forza incredibile. Da quel momento Liù si è votata al servizio del principe senza speranza di essere ricambiata, e non lo tradisce neppure di fronte alla morte.
Il suo sacrificio capovolge la prospettiva. Turandot, guardando l’altro a partire dalle proprie pretese, vive in un’ottica di dominio e di “consumo”. Per Liù, invece, l’importante non è ciò che può ottenere dall’altro, ma ciò che può dargli.
Dunque, se Turandot rappresenta una meccanicità deterministica, Liù contiene tutta la grandezza della libertà umana, capace di una gratuità imprevedibile e feconda. E se Turandot riesce a pensare solo in termini antagonistici (o sei vinto o sei vincitore) Liù ha il coraggio di offrirsi senza condizioni, accettandone i rischi.
Il suo esempio scuote la gelida principessa e incoraggia Calaf a tentare il tutto per tutto: lui stesso rivela Turandot il proprio nome, consegnandosi nelle sue mani e riuscendo così – paradossalmente – a conquistare il suo cuore.