Essere
Le parole e le cose
ès-se-re
Significato Verbo che esprime l’esistenza, l’accadere, l’appartenere; collega soggetto e predicato; introduce elementi che determinano il soggetto nei suoi stati, funzioni, etc; ciò che esiste; esistenza
Etimologia attraverso il latino parlato essere, dal classico esse, di origine indoeuropea.
- «Non essere spaventato da un discorso sull'essere.»
Parola pubblicata il 16 Maggio 2023
Le parole e le cose - con Salvatore Congiu
I termini della filosofia, dai presocratici ai giorni nostri: l’obiettivo è sfilare parole e concetti dalle cassette degli attrezzi dei filosofi per metterli nelle nostre — rendendo ragione della dottrina con la quotidianità. Con Salvatore Congiu, un martedì su due.
Le cose più inafferrabili, si sa, sono quelle che abbiamo sotto il naso. Chi mai andrebbe a cercare sul vocabolario la parola ‘essere’? Invece è istruttivo constatare quante – e quanto disparate – siano le sue incarnazioni, in frasi come «è buio», «questo regalo è per te», «è Natale», «l’anello è d’oro», «il libro è di Alice», «il Paese è in guerra», «sarà quel che sarà». E cosa c’entrano, poi, gli esseri di «Giovanni è uscito» e «Chiara è mia sorella» con quello di «Dio c’è»? I primi due sono a malapena verbi: sono vuoti, non dicono nulla: il primo è ‘ausiliare’, ossia aiuta semplicemente a coniugare un altro verbo, che esprime il proprio significato; il secondo è detto ‘copula’, cioè serve solo a collegare un soggetto a ciò che se ne dice. Il terzo invece un significato suo ce l’ha, predica qualcosa – e non una tra tante: l’esistere. Ma che razza di predicato è ‘essere’? E soprattutto che razza di cosa è l’essere, come sostantivo? Qui, decisamente, la grammatica cede il passo alla filosofia.
A differenza delle altre discipline, rivolte ad un ambito particolare del reale, la filosofia si è sempre interessata all’essente (ciò che è) in generale, all’essere delle cose in quanto tale: quest’ultimo è l’oggetto di una parte fondamentale della filosofia – l’ontologia, la metafisica – che è appunto dottrina dell’essere in quanto essere; e in quanto «filosofia prima», essa tenderà necessariamente a considerare anche il suo oggetto come ‘primo’ rispetto alla molteplicità cangiante di ciò che appare ai sensi: il vero essere (sia esso denominato ‘mondo delle idee’, ‘sostanza’, ‘Dio’ o ‘Spirito assoluto’) sarà concepito come forma eterna delle cose, intima essenza che costituisce il fondamento di ogni ente, e che noi possiamo attingere in quanto ne condividiamo la natura intelligibile – ossia, in ultima analisi, divina.
Non sorprende quindi che la filosofia moderna – dagli empiristi a Kant fino a Nietzsche – una volta messo in dubbio il provvidenziale accordo tra le nostre menti e l’intima natura delle cose, rigetti la pretesa metafisica di cogliere il ‘vero essere’, sottolineando il carattere limitato e prospettico della conoscenza umana. Nel Novecento, poi, una filosofia che si vuole ‘analitica’ e ‘scientifica’ stigmatizzerà certe speculazioni come inganno linguistico, uso scorretto del linguaggio che dà luogo a concetti vuoti. Fine dei giochi per la metafisica, ridotta a reliquia di un’umanità ingenua e premoderna. Al massimo, un logico sensibile alla dimensione spirituale come Wittgenstein potrà sentenziare che di certe cose, pur essenziali – anzi: proprio perché essenziali –, è comunque impossibile parlare sensatamente, quindi è meglio tacerle.
Quand’ecco che arriva Martin Heidegger (1889-1976) e ribalta clamorosamente lo schema: tutta la tradizione filosofica è metafisica, sì, ma non perché pretenda di parlare dell’essere: al contrario, perché lo ha dimenticato e travisato. Per Heidegger la metafisica non solo non coincide con l’ontologia, ma la nega. Ciò che è stato chiamato ‘essere’ in filosofia, infatti – idee, Spirito, sostanza, Dio – ogni volta non era altro che un super-ente (cioè un singolo essente, ancorché perfetto). A partire da Platone, l’idea della verità come corrispondenza dell’intelletto alla cosa, correttezza dello sguardo che rappresenta il mondo, secondo Heidegger riduce l’essere a ente, dimenticando la differenza ontologica tra i due. In quanto idea, eidos, immagine, l’essere diventa una prospettiva umana, un correlato del soggetto, qualcosa di utilizzabile, a disposizione: «La metafisica è antropomorfismo – il configurare e vedere il mondo a immagine dell’uomo». In questa visione l’essere, in quanto non è un ente, diventa nulla: ni-ente. La metafisica, quindi, non è altro che nichilismo. E la scienza moderna, che si crede antitetica alla metafisica, col suo approccio oggettivante ne è in realtà la massima incarnazione.
Martin Heidegger controlla se hai capito. Bada eh!
Ma la metafisica non è un errore umano, dovuto a scelte sbagliate dei filosofi: è l’essere stesso ad errare, nel senso che ha una storia, nel corso della quale si manifesta anche come oblio di sé, come smarrimento, perché la sua natura è di svelarsi sempre parzialmente, allo stesso tempo nascondendosi. L’unico modo per uscire dalla metafisica, quindi, è porsi in posizione di attesa e ricezione del disvelamento dell’essere: non a caso in greco la verità è a-létheia, ossia appunto svelamento, non nascondimento. Dobbiamo metterci «in ascolto dell’essere», cedergli la parola invece di voler parlare al suo posto; esserne «collaboratori» e «pastori», cercandolo laddove si manifesta: nel linguaggio autentico della poesia e del pensiero filosofico, che è «la casa dell’essere» come anche degli umani. Ma prima di parlare, «l’uomo deve anzitutto lasciarsi reclamare dall’essere, col pericolo che, sottoposto a questo reclamo, abbia poco o raramente qualcosa da dire». Al filosofo convengono anzitutto l’abbandono all’essere, l’ascolto e il silenzio, perché è dal «silenzio senza parole a lungo custodito» che «viene il dire del pensatore».
E in questa silenziosa attesa – meraviglia della filosofia – il logico Wittgenstein e l’ontologico Heidegger si scoprono affratellati.